Si potrebbe definire una “commedia amara”, per non arrivare a dark comedy, Oh Dio mio!, testo della scrittrice israeliana Anat Gov, in scena al Teatro Musco di Catania dal 7 al 19 gennaio. Prodotto dalla Compagnia Attori e Tecnici, diretto da Nicola Pistoia e interpretato da Vittorio Viviani e Viviana Toniolo, Oh Dio mio! è una sorta di apologo sulla figura di Dio nei secoli, che parte da una ipotesi tra il surreale e l’epigrammatico. Lo spunto “narrativo”, infatti, in questo caso è poco più di un pretesto, e mai termine fu più adattato. Dio (Vittorio Viviani), in persona (sia permessa, dato che se la permette già, con grande audacia, il testo stesso, la contraddizione in termini), si reca da una psicanalista, Ella (Viviana Toniolo), per chiederle aiuto, e anche con una certa urgenza, ché il tempo stringe. La seduta psicanalitica, o almeno un tentativo di essa, si scopre, inaspettatamente, come divertente occasione di dissertazione su alcuni tra i temi più importanti che la metafisica ha avuto modo di fronteggiare nella sua storia. Sia chiaro, assistendo allo spettacolo di Nicola Pistoia non si ride come matti. Ma, sia altrettanto chiaro, non è necessario, né, e questa è la cosa più importante, nel contesto specifico, sarebbe auspicabile. Tempo, vita, spiritualità, teodicea, sono solo alcuni tra i molti spunti forniti dal testo della Gov; in un impianto a metà strada fra commedia degli equivoci, almeno di primo acchito, e camera della tortura pirandelliana, i due interpreti snocciolano, con ritmo serrato e tempi comici azzeccati, una lunga serie di battute. Come i più accorti avranno già immaginato, stiamo parlando di un umorismo sottile, implicito, sottotraccia, yiddish nel senso migliore del termine.
Ma è uno, in particolare, lo snodo che ci sembra più utile a definire lo spettacolo. Più di una volta, infatti, durante le scorribande verbali a cui assistiamo viene chiamato in causa Giobbe e l’omonimo libro canonizzato sia nella Bibbia ebraica che in quella cristiana, composto, con tutta probabilità, a partire da un nucleo risalente ad almeno dieci secoli prima di Cristo, e in seguito variamente integrato e, altrettanto probabilmente, alterato. Il testo è organizzato intorno a due poli: da un lato la vicenda di un uomo retto e mite che cade vittima di Satana attraverso una serie inenarrabile di sventure, dall’altro i discorsi di tre amici dell’uomo, i quali tentano di “spiegare” l’irruzione del male nella vita di Giobbe. Nel momento in cui Dio si palesa, allo scopo di rimproverare Giobbe, reo di aver tentato di accedere alla spiegazione degli effetti di un disegno così imperscrutabile, di una causa prima così ineffabile, si concretizza, per Giobbe, la bellezza della scoperta del proprio “dominio”, in senso etimologico.
La grande forza di significazione di un testo come Oh Dio mio! risiede, secondo noi, proprio in questo incontro-scontro: Dio, personificato per l’occasione, resosi individuabile, distinguibile dal suo Creato e dalla sua Conoscenza, approda allo studio di Ella, atea della prima ora, ma con molte paure e qualche scheletro nascosti, come Giobbe che chiama Dio sul banco degli imputati. Come in quel caso, Dio si presenta, si manifesta, ma “solo”, in ultima analisi, per rendere nota la bellezza della scoperta dei propri limiti, la suggestione del percorso, piuttosto che della meta. I due protagonisti di questa commedia-non-commedia non fanno altro che viaggiare l’uno verso l’altro, fra mille accidenti dialettici; e noi ne osserviamo con rigore, e partecipazione, il percorso tortuoso. La regia, oltremodo sobria, di Nicola Pistoia, assume questo peso, questa mole di implicazioni, e cerca, riuscendoci quasi sempre in maniera impeccabile, a restituirgli levità d’espressione e profondità di scavo; ottimamente assistito dai due attori in scena, sempre misurati e appropriati. Oh Dio mio! può essere collocabile, in definitiva, nel solco della satira, feroce, sì, ma pur sempre garbata; una commedia travestita da dramma da camera; ma è anche, ne siamo sicuri, una riflessione, alta, sulla concezione dell’Altro da sé.
Fotografie di Gabriele Gelsi