La notizia è di quelle che dovrebbe far gridare allo scandalo ed ipotizzare l’avvio di un’accusa per altro tradimento dello Stato contro i soggetti coinvolti (perché sono più di uno), ma molti giornali la mantengono in sordina e si guardano bene dal disturbare il Grande Premier, così qualificato soltanto perché spalleggiato dal Caro Leader, il quale siede sul punto più alto del Colle e su quello più basso della Storia d’Italia. Pare, infatti, che il supertecnico e supervalutato professore della Bocconi, Mario Monti, l’uomo del giorno dopo Berlusconi e dell’ingresso nella piena era glaciale delle tasse e delle farse, abbia avuto un ruolo nel board di Moody’s, nelle fasi in cui l’agenzia di rating si accaniva contro il nostro Paese abbassandone la valutazione di rischio e facendone un facile bersaglio per la speculazione. Roba da far passare all’istante di moda i conflitti d’interesse del Cavaliere inservibile. Palazzo Chigi ha subito messo le mani avanti sostenendo che l’attuale Premier, pur essendo stato sul libro paga dell’agenzia, non era nello staff degli esperti incaricati di emettere giudizi sulla tenuta finanziaria degli Stati. Questo però non significa che Monti fosse all’oscuro di quel che accadeva ai piani alti di Moody’s ed il fatto che dai suoi curricula consegnati alla Bocconi e al Governo tale collaborazione non risulti, incrementa di molto i nostri sospetti. Di certo, non c’era bisogno di portare alla luce questo episodio per giudicare adeguatamente, oltre la loro scorza superficiale, gli eventi immediatamente precedenti ai mesi e alle settimane in cui l’Italia veniva colpita dalle saette dello spread e circondata dalla manovra a tenaglia dei mercati, via Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s, con quest’ultime che sembravano in fregola di retrocedere Roma tra i paesi pezzenti del capitalismo occidentale, proprio mentre stava saltando tutta la nostra politica estera che per un po’ ci aveva resi protagonisti delle rotte del mediterraneo, di quelle eurasiatiche e mediorientali (dalla Libia, alla Russia fino all’Iran). In quei cupi tempi, Mario Monti, già in odore di promozione perché forse qualcuno gli aveva tempisticamente e teppisticamente messo la pulce all’orecchio chiedendogli di attrezzarsi per il grande balzo (della pulce appunto), dalle pagine del Corriere della Sera faceva le pulci al Governo criticando l’operato inefficace dei suoi membri e proponendo ricette innovative per uscire dalla crisi. Soprattutto, in un articolo datato 7 agosto del 2011, sempre del Corsera, Monti, basandosi sugli scenari lugubri e lunari che Moody’s aveva prospettato per lo Stivale, e analizzando le ultime scelte fatte dal gabinetto ormai del tutto conformate sui richiami dei mercati e dell’Ue, parlava di podestà straniero e di commissariamento dell’equipe governativa da parte di organismi sovranazionali. Lo faceva stranamente criticando l’atteggiamento troppo remissivo di B., sebbene in nome del benessere delle future generazioni, ben sapendo che di lì a breve ne avrebbe preso il posto accelerando l’adesione a quegli stessi presupposti che stavano incatenando l’Italia alle idee che su di noi si erano fatti “Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York”. Una vera furbata del bocconiano che si stava preparando il terreno allontanando ed allentando con largo anticipo i medesimi sospetti che comunque sarebbero ricaduti su di lui, il quale di più e di meno, non avrebbe potuto svolgere. Scriveva in quel citato pezzo costui: “Come europeista, e dato che riconosco l’utile funzione svolta dai mercati (purché sottoposti a una rigorosa disciplina da poteri pubblici imparziali), vedo tutti i vantaggi di certi «vincoli esterni», soprattutto per un Paese che, quando si governa da sé, è poco incline a guardare all’interesse dei giovani e delle future generazioni”. E ancora: “Anche se quella del «podestà forestiero» è una tradizione che risale ai Comuni italiani del XIII secolo, dispiace che l’Italia possa essere vista come un Paese che preferisce lasciarsi imporre decisioni impopolari, ma in realtà positive per gli italiani che verranno, anziché prenderle per convinzione acquisita dopo civili dibattiti tra le parti. In questo, ci vorrebbe un po’ di «patriottismo economico», non nel fare barriera in nome dell’«interesse nazionale» contro acquisizioni dall’estero di imprese italiane anche in settori non strategici (barriere che del resto sono spesso goffe e inefficaci, una specie di colbertismo de noantri ).” Precisamente quello che ha poi messo in atto, facendo passare per decisioni e scelte proprie tutte quelle istanze “improcrastinabili” e “obbligatorie” imposteci dall’esterno. La sua persuasione all’autocastrazione economica e politica non cambia di una virgola la tragedia sociale nella quale siamo finiti. La consapevolezza del disastro non è mezza salvezza se si è agli ordini della disfatta. Attenti anche all’ultima frase della citazione, un vero e proprio richiamo per gli avvoltoi stranieri che avrebbero dovuto garantire la sua investitura, laddove denunciando il colbertismo de noantri, l’accademico bergamasco dimostrava la sua completa disponibilità a rendere tutto non strategico e svendibile, come sta accadendo con lo smembramento delle principali imprese di punta, quali Eni e Finmeccanica. L’unico “valore aggiunto” di Monti alla situazione pregressa- perché appunto questo egli stesso vaticinava in epoca “cavalier-leggera” e cioè che s’avanzasse qualcuno in grado di trasformare in convincimenti personali i diktat dei mercati, invertendo la tendenza al Downgrading di credibilità politica di cui B. era ritenuto responsabile - è stato quella di tradurre in divinazione autoctona le future richieste dei nostri partners mondiali (persino anticipandole) ed in decreto nazionale la pretesa subordinazione internazionale. Il brillante cattedratico è incapace di fare i conti, come dimostra l’ultimo allarme lanciato dalla Corte dei conti, secondo la quale mancano 3,5 mld di gettito, ma il proprio tornaconto ha saputo farlo benissimo fregandosene del futuro del Paese.
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