Un pezzo mio uscito ieri su Studio.
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Via del Campo Barbarico. Civati l’ha scritto il 19 giugno nel suo blog: «Una via che ricorda De André, con l’aggiunta di un aggettivo di cui si è spesso abusato, anche recentemente». La via ricalca il tracciato dell’antica via Latina, tra l’acquedotto Felice e la via Appia, in una zona in cui nel sesto secolo dopo Cristo, Vitige, re dei Goti, costruì il suo campo fortificato durante l’assedio di Roma.
Queste le coordinate storiche.
Con le coordinate di navigazione satellitare, invece, un mezzo disastro. Per raggiungere via del Campo Barbarico sbaglio strada due volte. La seconda, il TomTom mi costringe contromano in un vicolo in cui il senso unico non è indicato né sulla mappa né col canonico segnale di divieto d’accesso, e lo spazio è insufficiente per qualsiasi manovra. Perciò proseguo – per restare con De André – in direzione ostinata e contraria, pregando Dio che dall’altra parte non arrivi nessuno.
Quando finalmente arrivo alla sede dell’associazione Pinispettinati, la prima cosa che noto è un’ambulanza che staziona accanto all’ingresso. Il simbolo di Possibile, il nuovo soggetto politico voluto da Pippo Civati, fa bella mostra di sé nello striscione dietro al palco. È una rappresentazione grafica del carattere =, bianco su fondo circolare rosso, ma mi ricorda inevitabilmente un doppio divieto d’accesso. È un percorso complicato, penso, quello che porta a sinistra. Qui si svolge la prima assemblea nazionale. Il circolo è composto da tre casali, due su un lato e uno sull’altro. Nel mezzo c’è un vasto cortile su cui è montato il palco e le sedie per la platea. C’è una corona di pini dall’aria secolare che circonda lo spazio, tuttavia, alle undici del mattino, l’ombra è limitata a piccole macchie che ricadono per lo più nell’area dedicata agli operatori della stampa. Sono venute circa duemila persone che si difendono dal sole come possono, qualcuno con gli ombrelli, qualcun altro con i fazzoletti legati sulla testa. Ogni tanto spira un vento fresco per fortuna. Dal punto di ristoro si levano i fumi delle griglie, nel menù spicca un interessante panino vegetariano con zucca marinata. La gente fa la fila soprattutto per le bevande, nessuno ha fretta, tutti hanno l’aria di essere molto rilassati.
Il bar si trova all’interno di uno dei casali. Davanti a tavolini e poltrone, le casse dell’impianto audio diffondono le voci dei relatori sul palco. Un amico mi offre un caffè e mi presenta Luca Casarini. È ancora presto per stabilire chi è davvero motivato, e chi invece gira a vuoto, convinto di essere incappato nell’ennesima illusione. Il pubblico è composto in larga parte da giovani sotto i trent’anni, nessuno sfoggia i simboli canonici del secolo scorso: non c’è l’ombra di un Guerrillero Heroico né una falce e martello. In compenso davanti a me noto una ragazza con una frase di Bob Marley tatuata sul collo – Don’t worry about a thing, ’cause every little thing gonna be all right – proprio mentre sul palco si parla di legalizzazione della cannabis e si racconta che nel 1950, nella collezione di francobolli Italia al lavoro, l’Emilia Romagna era rappresentata da una lavoratrice della canapa.
La gente ascolta con attenzione gli interventi. Parlo con Valentina, una ragazza siciliana che viene da Pozzallo. Mi racconta del dramma dei migranti: «Negli ultimi due giorni abbiamo salvato cinquemila persone», dice. «I dati forniti dal Viminale sono sballati, laggiù tutto è demandato al volontariato, pensa che la popolazione di Santa Croce Camerina è composta al 90 per cento da immigrati». Le chiedo come funziona il meccanismo di raccolta delle firme a cui stanno pensando per proporre dei referendum sui temi fondamentali della vita politica italiana. Mi spiega che si tratta di una campagna alla maniera del crowdfunding. Bastano cinquemila persone in Italia che si rendano disponibili a raccogliere cento firme ciascuna. Mi metto a pensare a tutte le persone che conosco, e non arrivo a cento. Penso che la mia vita sociale è drammaticamente limitata e che in nessun caso potrei avere un futuro politico, né in questo né in un altro movimento. Rivedrò più tardi Valentina prodursi in un applauditissimo intervento dal palco.
Mi faccio presto un’idea sui temi che sono al centro della proposta politica di Possibile. Le questioni ambientali occupano il primo posto nella scala delle priorità, seguite dai temi della scuola, del reddito minimo e del lavoro (si levano vibranti strali rivolti al Jobs Act di Renzi, qualcuno sostiene che «quello che un tempo era il partito del lavoro, oggi perora l’uso dello spionaggio contro i lavoratori per facilitare i licenziamenti»).
Mi prendo una Coca al bar, e mentre tiro via la linguetta dalla lattina mi accorgo che Civati è proprio accanto a me che si scola una birra. La birra è in un semplice bicchiere di plastica, niente a che vedere col boccale con cui Bersani fu immortalato qualche anno fa, curvo su un tavolino in un locale di Roma, e immerso in una luce funesta e carica di presagi come quella che investiva i mangiatori di patate di Van Gogh. Una coppia di ragazzi si fa un selfie tra i mugugni di un omone con una polo rossa che sostiene che farsi i selfie sia roba da renziani. Ascolto Elly Schlein che cita Stefano Benni dalla Ballata della città dolente: Io sono un’altra. / In me ci si può perdere / ma ritrovarsi è splendida battaglia. / Di tutte le bugie e le catene / almeno da una sii libero / non dobbiamo sperare / possiamo, ogni istante del giorno.
Il ritrovarsi, come nuovo approdo in una terra che sia riconosciuta come casa, è uno dei tòpoi della narrazione, assieme ai continui richiami, espliciti e velati, a Podemos e al senso di orgoglio a cui si fa riferimento quando si presentano al pubblico gli esuli dal Pd («Adesso è il turno di Daniela Lastri, consigliera regionale in Toscana, appena fuoriuscita dal Partito Democratico!» e giù applausi e «Brava!»). Intorno all’una arriva il momento clou: la chiusura di Civati. Si comincia con le cifre: «Siamo in duemila, ma su repubblica.it preferiscono seguire la diretta da Pontida. Forse è il segno di un riposizionamento». Poi la butta sull’umorismo: «Non ho con me la felpa con scritto Roma». E: «Nell’ultimo anno abbiamo somatizzato». Poi i toni si fanno più seri: «Stanno disegnando una società in cui noi non ci siamo più»; e: «Abbiamo dimostrato che si può anche scendere dal carro del vincitore». Continua citando Deleuze: «Un po’ di possibile, altrimenti soffoco…». E ancora: «Stiamo sulla stessa barca di Alexis Tsipras» (mentre lo dice, dietro di me si leva il pianto disperato di un neonato); e ancora: «All’Expo non parlano di fame, ma di qualcosa di molto più borghese: di cibo». In conclusione: «La politica ha smesso di avere curiosità».
Finisce l’assemblea ed esco dai Pinispettinati insieme agli altri duemila che lentamente sciamano lungo via del Campo Barbarico. Al primo incrocio si ferma un taxi, scende un uomo in abito di lino grigio, osserva la massa di persone che giungono in senso contrario.
L’uomo mi ferma e mi fa:
«Scusi, quella cosa sulla nuova sinistra… è già finita?»
«Proprio un minuto fa», rispondo.