I giochi olimpici invernali di Sochi sono incominciati ma la stampa internazionale sembra non essersene accorta, presa com’è a dimenarsi e a sbraitare contro le presunte leggi “liberticide” di Putin o a rilevare i piccoli intoppi organizzativi per screditare il grande lavoro fatto dai russi. Cercano il pelo nell’uovo per non dare a Cesare (parola di origine latina dalla quale deriva quella russa czar) quello che è suo. Tuttavia, per quanto possano divagare per infangare, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, almeno di quelli che riescono ancora a vedere e a ragionare con la propria testa. La Russia non è più quella di vent’anni fa quando un nugolo di politici corrotti e di oligarchi saccheggiatori, aiutati a spartirsi lo Stato da manine straniere, consegnarono il loro Paese al mondo libero (cioè agli Stati Uniti) con il cappello in mano e le cosce aperte. I tempi sono cambiati e si percepisce.
Un articolo apparso sul NYT ci ricorda come stanno adesso le cose. Gli americani riescono ad essere ancora più lungimiranti dei loro alleati ridotti a gattini ciechi che fanno le fusa al padrone più di quanto egli non gradisca e capiscono che il pericolo geopolitico non va solo demonizzato ma anche compreso fino in fondo, al fine di trovare le “giuste” contromisure. Purtroppo, anche gli analisti Usa restano vittime dei loro pregiudizi mentali e riducono la lettura delle conseguenze dei fenomeni multipolari in atto alle mere differenze culturali o alla recrudescenza degli aspetti tradizionali e miti del passato più retrivi, elevati erroneamente ad elementi fondamentali di resistenza all’ordine egemonico globale di cui essi sono gli interpreti principali. Il conflitto di civiltà ha fatto già abbastanza danni e non è proprio il caso di applicare il medesimo paradigma ai russi che hanno sempre avuto un piede in Europa. Lo schemino insomma non reggerebbe più di tanto.
Il punto, dunque, è tale solo parzialmente perché semmai gli accenti sugli usi e costumi che ritornano in auge, soprattutto nel modello russo, per quanto enfatizzati dai medesimi leader locali, rappresentano appena l’evidenza superficiale che cela una trasformazione più sostanziale del sistema capitalistico autoctono e la strutturazione dei suoi rapporti sociali. Il contesto russo, sotto questo aspetto più profondo, non è sovrapponibile a quelli nostrani. Infatti, pur operando con categorie economiche, profili gestionali e tipologie organizzative riconoscibilissimi con le nostre lenti socio-economiche occidentali (impresa e mercato), si caratterizza per difformità non secondarie nelle relazioni tra lo Stato e i suoi apparatati, tra la Stato, la società civile e gli altri corpi collettivi (Chiesa ortodossa inclusa), quindi anche nei collegamenti e nelle evoluzioni interne alle varie sfere sociali, nonché nei relativi “precipitati” istituzionali. Parliamo, grosso modo, sempre di capitalismo (non è disponibile una terminologia più esatta in questo momento) ma con peculiarità e connotazioni proprie che incidono sull’impalcatura complessiva ai diversi livelli sociali e di conseguenza sui processi decisionali e sugli esiti finali di detti processi. Non abbiamo abbastanza dati e indagini per entrare nello specifico delle segmentazioni apicali e delle stratificazioni intermedie e terminali per esprimerci con più precisione sulla configurazione di questo sistema-Paese e di quelli affini che stanno perseguendo vie similari. Ma sappiamo con certezza che non unicamente di fattori culturali si tratta.
Torniamo al pezzo del NYT. Secondo il giornalista le discrepanze tra l’Est russificato ed il resto del mondo stanno accelerando per la guerra culturale intrapresa dal Cremlino. La verità è che Mosca non ha dichiarato guerra a nessuno ma ha opposto una sua scala valoriale a quella dominante occidentale, comprendendo che quest’ultima è uno dei tanti strumenti utilizzati dai suoi avversari geopolitici per destabilizzare la sicurezza interna del suo territorio e minare l’ordine pubblico. I valori, i principi sociali e le convinzioni generali non si inventano dalla sera alla mattina e la Russia ha lavorato sul materiale disponibile da secoli, recuperando il meglio del suo glorioso trascorso e aggiornandolo sulla contemporaneità. Checché ne pensi la stampa mondiale i russi non sono più o meno omofobi di noi (forse non sono così ipocriti) ma non possono permettersi la finta lascività che ci caratterizza perché hanno attraversato momenti drammatici dalla caduta dell’URSS e devono confrontarsi con il gap economico e politico accumulato. Sono ripartiti quasi da zero e hanno dovuto superare la frustrazione del salto all’indietro dopo essere stati i protagonisti di una lunga fase. Hanno dovuto ricostruire le basi di una società implosa e frammentatasi in mille pezzi che non credeva più in sé stessa ed era stata raggirata dalle promesse di emancipazione e di autodeterminazione individuale dei vicini e dei lontani del mondo libero. Per adempiere a questa immane operazione non ci sarebbe stato nulla di peggio che affidarsi al relativismo e al politicamente corretto dei nostri giorni atlantici. Non c’è nulla per il quale valga la pena impegnarsi veramente nel nostro attuale assetto valoriale. Al massimo si riesce ad ottenre qualche sfilata arcobaleno col sederino di fuori per fingere un minimo di empatia collettiva con emarginati che non sempre sono tali. Questo non sarebbe mai bastato ad una Nazione che andava alla ricerca di una nuova e corposa identità per tornare ad esistere.
Peraltro, loro hanno visto chiaramente in faccia il lato oscuro delle nostre chiacchiere democratiche che laggiù si sono tradotte in depredazioni a tutto spiano e occupazione dello stato da parte di bande di criminali autolegalizzatesi. Dunque, come si dice, i gradi principi evaporavano a contatto con la realtà mentre si affacciavano urgenti necessità storiche.
L’editorialista del NYT ammette questo aspetto: “Quello che molti occidentali vedevano come un periodo di prosperità senza limiti in casa e di prospettive senza precedenti per la libertà democratica all’estero, la maggior parte dei russi lo vedeva come l’incubo più oscuro a memoria d’uomo . L’economia si è schiantata, il debito accumulato e il sistema politico sono andato in crisi. La maggior parte dei russi ha perso tutti i suoi risparmi e ogni senso di sicurezza. Il fallimento del comunismo sovietico ha lasciato il paese privo di scopo nazionale [mentre il periodo di capitalismo iniziale lo ha vergognosamente umiliato], paralizzato dall’ ansia di quello che il prossimo capitolo della sua storia turbolenta avrebbe portato. Fu solo nel 2007 che l’economia russa è tornato ai livelli pre-collasso”. Ma ciò è accaduto grazie alla rinascita di gruppo dirigente consapevole e autenticamente nazionale di cui Putin è espressione, e questo, ovviamente, lo aggiungiamo noi perché il NYT non lo ammetterebbe mai. Interessante è anche quest’altra riflessione della penna del NYT: “La Russia è un caso speciale per un altro aspetto. Polonia, Ungheria, Lettonia, Ucraina e altri paesi che lottavano per l’indipendenza alla fine del 1980 e all’inizio del 1990 potrebbero biasimare Mosca per la loro miseria. La liberazione ha portato un nuovo senso alla direzione nazionale che ha incluso quello di fuggire dalla Russia. Ma la Russia, il centro dell’universo sovietico imploso, non poteva scappare da se stessa”. E non è scappata, tanto che ha ripreso a ragionare e a muoversi sulla scacchiera globale come una grande potenza regionale che aspira a ricavarsi uno spazio mondiale. Per garantirsi questa posizione e quelle a venire la Russia deve ricostituire la sua sfera d’influenza ed attivare un duraturo dinamismo economico e produttivo per ottenere quelle spinta propulsiva necessaria a svolgere i compiti prefissati. Ci sarà modo per migliorarsi ed allentare la morsa sui cittadini ma togliamoci dalla testa che essa possa essere uguale a noi. Il mondo sta cambiando e tutti quei principi, metodi e opinioni che fino a ieri consideravamo universali si rintaneranno nei nostri confini, scacciati dai popoli e dalle aree che li riterranno non convenienti e utili da perpetrare per dar seguito alle loro istanze. Non esiste mai un solo punto di vista se non c’è un solo soggetto a comandare. L’America sta perdendo questa prerogativa e noi con lei, in mancanza di una ricollocazione geopolitica. Si vedrà chi la spunterà ma abituiamoci all’idea che esistono altre idee e forze per imporle, per ora a casa propria poi chissà. Questo è il multipolarismo che prima o dopo sfocerà nel policentrismo. Quando succederà ci sarà poco da sfilare al gay pride o alle marce femministe per le quote rosa. A parlare saranno soprattutto i cannoni. Intelligenti pauca.