« Maledetti, trafitti dalla passione, l'amore ci sopravvive, l'arte ci rende immortali. »
(A proposito degli artisti.)
Goethe
Goethe
Un sondaggio recentissimo indica che ancora oggi Johannes Wolfgang Goethe viene considerato il più grande dei tedeschi. Badate bene, non degli scrittori tedeschi, ma di tutti i figli di quella grande nazione che è la Germania. Un libro appena uscito (John Armstrong, Come essere felici in un mondo imperfetto. La vita e l’amore secondo Goethe, Guanda, pagg. 476, euro 23) ci aiuta a ripensare Goethe essenzialmente come essere umano, ci racconta la sua avventura nel mondo, ci illustra come il figlio di un borghese della Germania settecentesca, defilata e divisa, sia diventato una figura chiave dell’Europa a cavallo tra XVIII e XIX secolo, una specie di maestro illuminato capace di agire, di comprendere tutta la realtà e di restare come un monumento vivente al centro della cultura occidentale.
Goethe scrisse alcuni libri di straordinaria bellezza. Armstrong predilige I dolori del giovane Werther e Faust. Io aggiungerei almeno Le elegie romane, Divan occidentale-orientale e quel romanzo d’amore duro come un diamante e ardente come una fiammata che è Le affinità elettive. Bastano per parlare di un gigante della letteratura, uno da mettere nella famiglia di Dante e Shakespeare. Ma Goethe ebbe anche una vita straordinaria. Se il peccato più grande, come si dice in versi memorabili di Jorge Luis Borges, è non essere felici, Goethe non peccò. Fu felice. O meglio, pensò che la vita di un uomo si compie nella ricerca della felicità, e si regolò di conseguenza. Fu anche fortunato. Era ricco, di bell’aspetto, visse a lungo, poté lavorare sino agli ultimi giorni della sua esistenza. Amò l’Amore, conobbe donne sublimi e donne plebee (con qualche predilezione carnale per quest’ultime) e fu continuamente innamorato. Non si capacitava del fatto che gli artisti si compiacessero di prediligere la sregolatezza, il disordine, il buio, che pensassero che tutto è male. Lui vedeva intorno a sé la violenza, l’avidità, la pazzia, l’imperfezione delle cose, ma invece di abbandonarsi a esse o di considerarle inevitabili, cercò sempre la via per uscirne e per superarle.
Fu un borghese e un sapiente, amante del decoro, sottilmente vicino al potere per influenzarlo e volgerlo a fini più alti. Fu ministro del Duca di Weimar, si occupò di strade e di canali, oltre che di teatri e di rappresentazioni. Diresse i suoi interessi anche verso la scienza. Studiò la natura e la teoria dei colori, osò entrare in conflitto con Newton, in nome di una concezione organicistica e panteistica della natura stessa. Insofferente della mitologia germanica, vide ordine e bellezza nel mondo greco e romano, amò l’Italia sino a dedicarle un libro di viaggio di una incomparabile freschezza.
Nonostante, o forse a causa del suo precoce essere diventato una figura da pantheon e da museo, Goethe ha trovato detrattori, che lo hanno accusato di egoismo borghese, di insensibilità, di servilismo. Che hanno definito freddezza la sua calma olimpica, ricordando che si faceva chiamare dalla moglie, la povera Christiane, «Signor Consigliere Privato», che si mise a letto ammalato quando lei morì e si alzò tranquillo soltanto dopo il funerale. Fra questi detrattori spicca per brillantezza partigiana e sulfurea il romanziere di origine ungherese Stephen Vizinczey, il quale in un saggio compreso nel suo I dieci comandamenti di uno scrittore, fa letteralmente a pezzi l’autore del Faust, chiamandolo «genio» e «leccapiedi», in un crescendo di terroristiche invettive. Alla fine del saggio, il livore si manifesta in pieno, con l’affermazione che sarebbe stato meglio per Goethe morire giovane come Kleist o pazzo come Hölderlin.
Per un uomo del Novecento, l’artista deve vivere in sé la crisi, l’insoddisfazione, l’incompletezza, lo scacco. È divenuto un luogo comune. E lo vediamo ancora oggi, non c’è sedicente artista, anche il più modesto, che non si senta trasgressivo parlando di insensatezza, di impossibilità e di follia. Goethe rappresenta un modello diverso. Della passione, conosce l’abisso e le geometrie. Del male, conosce tutta la mefistofelica potenza di seduzione e di oscurità. Ma lui vola più alto. Insegue la costruzione della propria vita di essere individuale che cerca la felicità sulla terra, nei rapporti sociali, nell’equilibrio e nella luce.
Nel suo libro, John Armstrong ricostruisce la morte di Goethe, il 22 marzo 1832, senza riferire quelle sue ultime parole che sembrarono così coerenti con tutta la sua filosofia: «Più luce». Ce lo mostra più umano, seduto su una poltrona, impaurito, in preda a terribili dolori al petto, mentre con le dita continua a tracciare lettere sulla coperta che ha sulle ginocchia. Se fosse vera questa versione, il più grande di tutti i tedeschi è morto scrivendo. Lui che aveva usato la scrittura in tutte le sue forme per essere se stesso e conoscere il mistero del mondo, non si è arreso neppure di fronte all’ultimo respiro. Non ha mostrato debolezza, e ha affrontato il terrore della morte con il fare: con lo scrivere, per l’ultima volta.