di Giorgio Masiero*
*fisico e docente universitario
Quando al liceo l’insegnante di filosofia ci parlò dei paradossi di Zenone (la freccia che non raggiunge mai il bersaglio perché prima deve fare metà strada, e prima ancora un quarto di strada, e così via, sicché deve passare per infiniti punti prima di toccare l’obiettivo; o Achille piè veloce che non può sorpassare la tartaruga…), io rimasi muto: di quanti istanti è fatto un intervallo di tempo? Come si concilia il moto con la geometria? E ristetti perplesso, con una punta d’amaro in bocca, allorché il professore di matematica presunse di confutare Zenone con le serie geometriche convergenti. Per Euclide il cammino della freccia è un segmento, questo è composto soltanto di punti, che sono infiniti perché, per un assioma, tra due ce n’è sempre uno in mezzo; inoltre, il punto è indivisibile e ha lunghezza zero. Ma 0 + 0 + 0 +… = 0, e allora, ci sfida Zenone, da dove emerge la lunghezza del segmento? Un caso matematico di “ciliegina sulla torta” come la coscienza nei cervelli neodarwinisti? 150 anni fa il matematico tedesco G. Cantor infierì sulla piaga, “contando” gli infiniti e dimostrando che in 1 cm ci sono tanti punti quanti in 1 km, anzi quanti nello spazio illimitato: per l’esattezza Alef1, né più né meno. Ma allora di che cosa è fatta la lunghezza di un segmento? Nel 1924 infine, due matematici polacchi, S. Banach e A. Tarski, dimostrarono che si può prendere una palla nello spazio euclideo, suddividerla in un insieme finito di pezzi e riassemblare i pezzi con sole rotazioni e traslazioni in modo da ottenere due palle uguali all’originale. Se ciò è vero, ed è vero in geometria, di che cosa è fatto lo spazio reale?
Ebbene, io ho trovato risposte soddisfacenti a queste domande solo nella metafisica medievale dei teologi arabi del Kalam (i Mutakallimun) e di un rabbino di Cordoba, al cospetto dei quali mi volgo ora con molto rispetto; e i dettagli quantitativi nei teoremi della fisica moderna. I Mutakallimun (IX-XII sec.) capirono che per affrontare i paradossi di Zenone occorreva partire da un’analisi dei concetti di spazio e tempo. Sul tempo, era stato Sant’Agostino (IV-V sec.) ad avviare la ricerca. I compagni pagani lo irridevano per la sua fede biblica nell’inizio del mondo: che cosa faceva Dio in tutto quel tempo, un tempo infinito, prima dell’inizio? Ebbene, Agostino anticipò la risposta che oggi dà la fisica: prima dell’inizio non c’era il tempo, il tempo è stato creato da nulla insieme al mondo. C’era arrivato con la teologia, oggi la fisica ci arriva con i teoremi di Vilenkin. Il tempo, ragionò Agostino, non è Dio: allora è una cosa creata da Dio. Se il mondo ha avuto un inizio, come c’insegna la Bibbia, anche il tempo ha avuto un inizio. D’altra parte, aggiunse, non ha senso chiedersi che cosa Dio facesse prima dell’inizio, perché non c’era un prima: “Non chiedere che cosa Dio facesse allora: non c’era allora dove non c’era il tempo” (da “Le confessioni”). Anche secondo la fisica moderna il tempo è definito solo entro l’Universo e quindi non ha senso parlare di tempo “prima” dell’inizio dell’Universo: “Sarebbe come cercare un punto a sud del Polo Sud: non è definito” (S. Hawking). Di suo, la fisica aggiunge la data d’inizio dello spettacolo (13,7 miliardi di anni fa), per la precisione quantitativa, ma questo è il suo mestiere.
Col Kalam, la metafisica fece passi ulteriori: non esiste uno spazio separato dal tempo, ma un’unità reale in cui la dimensione temporale è connessa alle tre spaziali; né lo spazio-tempo è assoluto, ma le sue estensioni sono relative all’osservatore: “Non c’è nessuna differenza tra l’estensione temporale che, rispetto ad uno di noi, distingue il prima dal poi, e l’estensione spaziale che, rispetto ad uno di noi, divide il sopra dal sotto” (Al Ghazali, “Incoerenza dei filosofi”). In assenza di corpi né lo spazio, che ne indica la superficie limitante e le distanze reciproche, né il tempo hanno senso: “Il tempo è la durata in cui un corpo è a riposo o in moto: se il corpo è privato di questi stati cessa di esistere e anche il tempo cessa di esistere. […] Corpo e tempo co-esistono” (Ibn Hazm, “Dettagliato esame critico”). Spazio, tempo, corpi e moto sono nel Kalam concetti correlati. Queste assunzioni sono oggi alla base della relatività einsteiniana.
Ancora, secondo un’intuizione che privilegia i numeri interi ai reali ed anticipa la meccanica quantistica, una quantizzazione è applicata dal Kalam ai corpi, alle loro proprietà, all’energia (il calore) e allo spazio-tempo, tutti gli enti essendo composti di un numero finito di particelle elementari. Lo spazio reale è suddiviso in unità, senza le quali perderebbe la sua coerenza: lo spazio reale è una struttura aggregata di celle indivisibili. È quanto mille anni dopo sarà postulato in geometrodinamica, la quale specula che su piccola scala lo spazio non è un fluido continuo, ma una schiuma di celle la cui distensione lineare non supera la “lunghezza di Planck”. Così, la distanza reale che separa l’arco dal bersaglio non è l’astratta linea euclidea, al più modello della situazione reale e mai sua copia perfetta: la freccia percorre un numero finito di distensioni contemporanee, molto corte per i nostri sensi, ma non nulle se la loro somma deve risultare in una distanza diversa da zero! Che cosa ci dà in più oggi la fisica? Non un concetto, ma la precisione di un numero: L = 1,62 × 10-33 cm, che è “la lunghezza di Planck”. Il Kalam c’insegna che un metro reale è un aggregato di distensioni contemporanee dello spazio reale; la fisica predice che in un metro reale ci sono almeno 100/L = 61,73 milioni di miliardi di miliardi di miliardi di tali celle planckiane.
Anche il tempo per questi teologi ha una struttura discreta. Secondo il rabbino M. Maimonide (XII sec.) la successione degli istanti che produce una durata misurabile dalla clessidra evidenzia l’esistenza di una soglia temporale minima: “Il tempo è composto di atomi, e questi sono indivisibili” (da “Guida dei perplessi”). Il tempo è una struttura aggregata di intervalli indivisibili, intrinseci alla realtà mondana che è mutevole, per contrasto alla distensione eterna in cui si svolge la vita di Dio. Oggi il tempo è un parametro continuo in fisica, ma ciò appare necessitato più dalla nostra ignoranza aritmetica che dalla sua struttura reale a piccola scala: infatti le leggi della fisica sono valide solo sopra il limite detto “tempo di Planck” e l’unificazione della meccanica quantistica con la relatività generale potrà richiedere una quantizzazione del tempo. Per i nostri metafisici il tempo scorre a scatti, come una ruota dentata: tic, tic, tic,… gli istanti (“ana”) si succedono l’uno all’altro, sono brevi per i nostri orologi biologici, ma non nulli! Il tempo appare continuo, ma è un’illusione, come al cinema dove vediamo succedersi senza soluzione le scene che, invece, sono registrate ad intervalli successivi, di breve durata rispetto ai tempi biologici delle nostre retine. Che ci dà in più oggi la fisica? Un numero: T= 5,39 × 10-44 sec, che è il “tempo di Planck”. Maimonide c’insegna che un minuto è un aggregato di distensioni non contemporanee dell’anima, la fisica predice che in un minuto tali distensioni elementari sono in numero non inferiore a 60/T= 1,11 miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi.
Il Kalam assume che i corpi sono ricreati in ogni momento da Dio: creati in uno stato, tornano nel nulla e sono ricreati in un altro stato; e che le leggi di natura sono contingenti e indeterminate: gli eventi sono probabilistici, non deterministici. A livello microscopico, il moto avviene per salti discreti (“tafra”), in cui gli atomi di un corpo occupanti una cella di spazio per un ana di tempo sono annichilati per ricomparire un ana di tempo dopo nella cella di spazio contiguo. Queste nozioni sono le più antiche intuizioni di meccanica quantistica: esse precorrono i salti quantici di Bohr, l’effetto tunnel, gli operatori di creazione e annichilazione, l’interpretazione di Copenaghen. “In un certo senso credo che, come sognavano gli antichi, il puro pensiero può cogliere la realtà” (A. Einstein, H. Spencer Lecture 1933). Un sistema geometrico euclideo, continuo e liscio, dello spazio-tempo è una descrizione appropriata per un mondo astratto costituito di parti autonome non correlate, ma è insufficiente a spiegare il movimento nell’Universo reale, un movimento che non è solo moto nello spazio-tempo, ma anche cambiamento di stato.
La quantizzazione metafisica medievale risolve i paradossi di Zenone sul moto, ma non basta a spiegare l’infinità di forme e di processi in cui la Natura si esprime, a meno d’invocare l’intervento costante di Dio. Oggi la gravitazione quantistica implementa lo spazio reale (il “vuoto fisico”) con metriche non euclidee, campi di forza e fluttuazioni di energia che gli danno a priori una struttura causale in grado di connettere il qui al là e l’ora all’allora della storia dell’Universo, evitando l’occasionalismo teologico. Che la fisica moderna postuli l’hermiticità dell’operatore di Heisenberg e l’unitarietà del propagatore di Feynman nello spazio hilbertiano degli stati fisici o che l’ontologia medievale definisca la creazione come relazione continua della creatura con Dio (che non è solo il creatore iniziale, ma anche “causa dell’azione di ogni cosa in quanto le dà la capacità di agire, la conserva, la applica nell’azione”, Tommaso d’Aquino, “De potentia”), in ogni caso la contraddizione tra essere e divenire si risolve nel principio di un logos.
Sarebbe bello continuare a conversare con questi teologi, all’ombra rinfrescante di un aranceto profumato dei giardini di Baghdad e Cordoba, in un silenzio turbato soltanto dallo zampillio dell’acqua nelle fontane ottagonali intarsiate di arabeschi, e coglierne ad una ad una le infinite perle di sapienza metafisica. Nella loro originale concezione digitale, essi afferrarono in nuce la struttura della realtà fisica e precorsero la realtà virtuale. Ma non c’è più tempo. Shukran, Ibn Hazm e Al-Ghazali! Shalom, Maimonide!