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Come la pioggia…

Da Suddegenere

Come la pioggia…Jamila Hassoune è la fondatrice del Club du Livre et de Lecture e ideatrice della Carovana del libro che si conclude proprio oggi ad Imola con una cena sociale . Jamila vive a Marrakech dove fa la libraia.

Come la pioggia, donne marocchine raccontano il loro impegno

L’intervista è lunga ma consiglio di leggerla, trasuda Umanità, e di questi tempi….

Da UNA CITTA’ n. 131 / 2005 Agosto-Settembre, intervista realizzata da Barbara Bertoncin, Elena Chiti:

“”La mia famiglia è originaria di un paesino del Sud del Marocco, vicino al confine con l’Algeria. I miei genitori sono arrivati a Marrakech giusto due mesi prima che io nascessi. Arrivati qui non se ne sono più voluti andare. Marrakech, per quanto anche negli ultimi rapporti continui a risultare la città più povera, è un bel posto dove vivere.
A volte penso che questo mio desiderio di riscatto, per me e per la gente nata con meno possibilità, venga da lì. Nel paesino dei miei genitori i libri erano “rari come la pioggia”. La mia poi è una famiglia conservatrice. Infatti da adolescente non uscivo, non andavo nei locali. Però nella casa della mia infanzia c’era qual­cosa di buono: la biblioteca. Avevamo molti libri. E io passavo tutto il mio tempo a leggere. Così, pur non potendo muovermi, ho presto maturato uno spirito libe­ro. Anche se non sono andata all’università ho acquisito un bagaglio culturale di tutto rispetto, i libri sono stati la mia scuola, infatti anche da ragazzina ero sem­pre “più avanti” rispetto ai miei compagni, alle mie compagne e alla mia famiglia, perché già a 12, a 14 anni leggevo molte cose, anche libri importanti, ho letto Si­mone de Beauvoir che ero poco più di una bambina. Insomma non uscivo, non avevo grandi opportunità di distrazione; e però avevo tanti libri a casa.
Nel 1975, mio padre, che faceva l’insegnante, è diventato libraio. Così quando sono diventata grande, data anche la disoccupazione, la difficoltà di trovare un lavoro, si è pensato che io avrei potuto dirigere un’altra libreria.

Nel 1994 ho cominciato con un mio negozio di libri nella zona dell’Università di Marrakech. Il primo anno è stato molto difficile vendere libri così ho cominciato a chiedermi perché gli studenti non venissero in libreria. E’ stato parlando con al­cuni giovani arrivati dalla campagna o dal deserto -la maggior parte degli studen­ti che vanno all’Università a Marrakesh vengono da lì- che ho capito che oltre al problema economico (non hanno soldi, ma davvero) scontano anche un gap cul­turale, nel senso che anche se hanno un diploma, non hanno una grande cultu­ra. Del resto nei loro piccoli paesi non ci sono librerie e il sistema dell’istruzione è molto carente.
Di qui l’idea: come far arrivare i libri in queste campagne? Come aiutare questi giovani, come dare loro le stesse opportunità dei giovani di città?
I libri sono facili da portare in giro, basto io con la mia macchina. Così ho inizia­to a organizzarmi e nel 1996 ho fatto tre viaggi in un mese. Ho iniziato con le scuole, superiori ed elementari. Ho fatto delle esposizioni e con l’occasione ho discusso con i giovani. Nel 1999 ho condotto un’inchiesta su 1000 giovani: che genere di libri vogliono leggere. Io penso che offrire l’opportunità di informarsi, di pensare, di discutere, confrontarsi abbia a che fare con la cittadinanza. Conside­ro il lavoro che ho svolto durante questi anni un tentativo di democratizzare la co­noscenza.

Due anni fa ho iniziato a interessarmi di internet. Ovviamente gli studenti, i giova­ni non hanno soldi per comprarsi il computer, ma ci sono i cyber-café, che si stanno rivelando un fenomeno straordinario. Ci sono cyber-café vicino alla libre­ria, vicino all’università e tutti questi giovani, ragazzi e ragazze, stanno in questi posti anche fino alle undici di sera, che è molto tardi, soprattutto per le ragazze. Le famiglie che non lasciano le figlie andare in un locale la sera, permettono pe­rò loro di fermarsi fino a tardi in un internet cafè. Ho così scoperto che questi luo­ghi sono anche un piccolo laboratorio di relazioni nuove e diverse, soprattutto tra ragazzi e ragazze. Se fuori prevalgono ancora varie forme di discriminazione, do­vute alla sanzione sociale, ma soprattutto all’educazione che i maschi ricevono dalle loro madri, negli internet café ragazzi e ragazze si trattano alla pari, davan­ti a quello schermo sono uguali, si aiutano. Del resto è andata così anche nella mia famiglia: io so lavare, so cucinare, so fare un po’ tutto, mi piace anche. Mio fratello invece non fa niente, nessuno gliel’ha mai chiesto. Quando un uomo e una donna si sposano, l’uomo si aspetta ancora di aver trovato una donna che si occupi della casa. Quindi che si sia creata una sorta di “zona franca” è impor­tante. Poi internet è libero, perché non c’è una “censura”, come nei libri. Ma la cosa più sorprendente è come cambiano i comportamenti dei giovani. E se pen­siamo che nel mondo arabo, in alcuni paesi, Marocco compreso, i giovani costi­tuiscono più del 70% della popolazione… Insomma lavorare con i giovani, investi­re su di loro, è una battaglia proprio per il futuro del Paese.

Sono dieci anni che mi adopero per sensibilizzare le persone ad aprire librerie, soprattutto nei paesini, per aprirli al mondo. Ora per fortuna c’è anche internet, ma i ragazzi della campagna, per trovare un cyber-cafè, devono venire a Marra­kech.
Direi che il timone del mio lavoro è sempre stato questo: costruire un ponte tra piccoli paesi e città, e magari anche con il mondo esterno. Io ho cercato di apri­re questa strada.
In Marocco nessuno si è mai veramente interessato della popolazione rurale, che continua a vivere in uno stato di isolamento, pur rappresentando il 45% del­la popolazione. Così abbiamo intere aree dove non ci sono librerie, cinema, tea­tri… Certo, spesso non hanno nemmeno l’acqua o l’elettricità. Ma per me è sta­to molto interessante scoprire come questa giovane popolazione oggi chieda so­prattutto di essere educata. E soddisfare la sete di sapere e di conoscere dei giovani è una missione ineludibile, anche perché offrendo maggiori risorse e stru­menti, li si rende più liberi e più protetti dalla seduzione semplificatoria, dalla ma­nipolazione da parte dei fondamentalisti, che giocano anche sul loro senso di fru­strazione, quando non disperazione, e sulla pochezza dei loro strumenti, sulla loro miseria.

Per me il libro, fin dalla mia infanzia, è stato proprio anche un simbolo. Da picco­la mio zio, che era un ex-prigioniero politico, viveva con noi. Ebbene io in tutti questi anni ho mantenuto vivo il ricordo della volta in cui i poliziotti erano venuti a prenderlo e lui che ci diceva: “Bisogna nascondere i libri”. Ecco, nella mia testa il fatto di nascondere i libri è diventato come imprigionare, incarcerare. I libri, po­ter leggere, invece per me rappresentano da sempre la libertà.
Io non ho mai avuto i mezzi per finanziarmi dei viaggi (ora viaggio molto, ma per­ché ho la fortuna di essere invitata, farlo a mie spese sarebbe impossibile), però avevo i libri: se non puoi viaggiare, puoi sempre leggere un libro.
In questo senso la scelta di aprire una libreria per me è stata particolarmente im­portante. Non ho aperto una libreria per guadagnare. Certo devo sopravvivere, e comunque confido che le cose andranno meglio. Già ora abbiamo molti libri, molte edizioni, il fatto è che i giovani non hanno soldi. Ma per me, tenere aperta una libreria malgrado questa situazione è come mantenere una posizione in una battaglia. Nella mia testa, o c’è la guerra o c’è la cultura. Insomma, non è che se le cose vanno male potrei aprire un caffè al suo posto. Comunque vadano le cose, almeno c’è questa libreria e la gente può andarci. E poi la libreria mi ha permesso di incontrare molta gente, molte persone interessanti, e di imparare tante cose, di discutere di confrontarmi.
E’ proprio perché ritengo tutto questo importantissimo che vorrei metterlo a di­sposizione anche di altri, soprattutto dei giovani. In questo senso è anche una battaglia per la cittadinanza.
E poi il sapere è anche potere. Una “rete” di conoscenze è una cosa di un pote­re enorme. Ora c’è il satellite -non ha niente a che fare con i libri- ma anche quello è un mezzo che soprattutto nei paesi arabi sta producendo democrazia.
Quindi se il potere non puoi averlo con i soldi, puoi averlo con il sapere. Oltretut­to il sapere nessuno te lo può portare via.

In Marocco si parla l’arabo, il berbero, il francese. Certo, è una complicazione, però è anche una ricchezza. Tempo fa avevo preparato un piccolo dossier sco­prendo che il 60% delle persone imparano anche una lingua straniera; molti, per dire, oggi imparano l’inglese per usare internet.
Le difficoltà si scontano soprattutto sul piano dell’istruzione. Per esempio, un’in­segnante che sia chiamata a lavorare alle scuole elementari di un paesino dovrà sapere il berbero perché lì è quella la loro prima lingua. Non viene insegnato loro il dialetto marocchino o l’arabo classico. Allora questo può essere un problema. Ma per me resta una grande opportunità, una fortuna. Tant’è che i marocchini hanno molta facilità nell’imparare le lingue: imparano il giapponese, lo spagno­lo… niente è difficile per noi. In genere comunque in casa si parla dialetto maroc­chino; in alcune famiglie, come dicevo, si parla il berbero; e poi si studia l’arabo classico. Ma non è complicato come si potrebbe pensare. Io ho cominciato l’ara­bo classico a 6 anni. Facevamo solo arabo classico. Il dialetto non viene fatto a scuola. Ora c’è un nuovo sistema, per cui si insegna berbero in alcune classi. Hanno cominciato l’anno scorso.
Io infatti non l’ho studiato, anche se sono berbera, ma quando andiamo nei pae­sini c’è sempre qualcuno dei miei amici che lo parla; anche nella mia famiglia sono in molti a parlarlo. L’importante è avere qualcuno che ti accompagni e ti permetta di comunicare.
Poi, più che il berbero il problema è il dialetto marocchino, con il quale difficil­mente si comunica con il mondo arabo. Perché non è capito. E questo è un pec­cato perché così non riusciamo a esportare la nostra cultura. Noi abbiamo film e programmi che arrivano dall’Egitto, perché il dialetto egiziano, a differenza di quello marocchino, lo capiscono tutti. Molti capiscono il siriano e il giordano per­ché sono simili all’arabo classico. Noi invece con questo fatto del dialetto non esportiamo niente. Questo comunque è dovuto a una sorta di circolo vizioso che forse parte dal fatto che da noi, almeno finora, la cultura non è stata considerata come qualcosa di importante. Invece è l’elemento che potrebbe cambiare molte cose.

Com’è nata la Carovana Civica? Nel 1997 ho organizzato un’esposizione di libri a Marrakech. In Marocco è molto difficile vendere libri, ma quando c’è una gran­de manifestazione, la gente viene anche da fuori e in genere è un’ottima opportu­nità anche sul piano economico. Io poi sono abbastanza brava a contrattare. An­che perché in tutti questi anni credo di aver acquisito una buona competenza, non solo perché conosco i libri, ma anche perché ho maturato una certa abilità a recensirli e a presentarli, con un libro ti so raccontare tante cose, un paese, un autore, una storia… Sono ormai una specialista in questo. So farlo molto be­ne. Ecco, in quell’occasione ho incontrato Fatema Mernissi che si è subito com­plimentata: “Non ho mai visto qualcuno così bravo a vendere libri!”, io mi sono schermita dicendo che a una manifestazione di quel tipo era facile perché c’era tanta gente, ma lei ha insistito. Non solo, ha chiamato l’editore Fennec dicendo: “Se aveste una libraia così in tutto il Marocco, potreste vendere qualsiasi cosa”. Dopodiché mi ha chiesto se poteva fare qualcosa per me e mi ha invitato a parte­cipare, a Rabat, a un meeting di donne. Si trattava di un workshop su come pre­sentare noi stesse in 10 minuti. Lei aveva fatto questo workshop per noi. Ho an­cora il mio attestato: ero risultata la più brava. A quel punto le ho proposto: “Vuoi ancora fare qualcosa per me? Bene, io sono venuta a Rabat; perché non vieni a Marrakesh?”.
Ha accettato. Abbiamo parlato ed è stato allora che nelle sue parole l’idea ha ini­ziato a prendere forma: “Il tuo lavoro, quello che fai, è una carovana. È una caro­vana perché ti muovi, vai… tra l’altro in Marocco è il primo movimento che va dal­la città alla campagna”.
Per me è stato soprattutto un riconoscimento. Voglio dire, è da una vita che tut­ti ridono e mi prendono in giro perché secondo loro sto perdendo dei soldi. Ma io non solo credo che prima o poi guadagnerò anche come venditrice di libri, quest’impresa ora mi interessa soprattutto come una forma di militanza. Mi spie­go: in Marocco non ci sono infrastrutture, ci sono anche ampie sacche di popo­lazione analfabeta, e io cosa faccio? Resto chiusa nella mia libreria? Impossibi­le.
Poi, lo sanno tutti, una libreria non è un’attività che faccia guadagnare molti sol­di. Tuttavia io penso di aver avuto l’idea giusta: faccio venire avvocati, medici, scrittori, giornalisti, anche dall’estero e li porto nei paesini, perché è soprattutto là che c’è fame di incontri, di ascoltare, di conoscere della gente.
Ormai infatti è diventato un chiodo fisso. Ogni volta che viaggiando conosco qual­cuno finisco per proporgli: “Vuoi venire a Marrakesh? Organizziamo qualco­sa…”.
Le Carovane Civiche sono nate così ed è stata dura, perché due Carovane Civi­che in un anno richiedono tantissimo lavoro. Ma il successo è stato il fatto di co­municare anche con persone provenienti da altri paesi, dalla Germania, dall’Ita­lia, e di scambiarci delle idee. Finora abbiamo organizzato sei Carovane, tutte con successo.
Lo scopo della Carovana è promuovere un forum di discussione tra le persone, che metta in comunicazione campagna e città, ma anche il Marocco con altri paesi. Ciascuno aderisce al progetto portandovi la propria competenza ed espe­rienza. Se sei un giornalista, hai la possibilità di scrivere; se sei un fotografo, puoi scattare fotografie. Per il resto c’è un’atmosfera di condivisione e conviviali­tà. E’ come una famiglia, infatti la nostra Carovana è tenuta assieme anche da un forte spirito di solidarietà. Per la riuscita di quest’impresa ci vuole anche em­patia, sensibilità, e soprattutto il fatto di crederci.

Cosa faccio quando mi reco nei paesini? Beh, la prima cosa è un’esposizione di libri che dura qualche giorno. Come dicevo in questi posti spesso non c’è nien­te, quindi io metto a disposizione una specie di libreria ambulante. Attorno ai li­bri poi però succedono delle cose. Per esempio a volte mi si avvicinano delle ra­gazze che hanno semplicemente bisogno di confidarsi con qualcuno: “Abbiamo dei problemi…”. Lì il libro è un alibi e io le ascolto, come un’amica, come una sorella. Questa è stata una scoperta molto interessante. Infatti presto ho capito che l’esposizione poteva diventare anche l’occasione di incontri significativi e che da lì potevano partire altre iniziative. Così, con gli anni, oltre ad esporre libri, abbiamo iniziato a organizzare dei workshop. L’anno scorso in un paesino ne ab­biamo fatto uno sui diritti umani. Altre volte abbiamo fatto del teatro. Abbiamo or­ganizzato qualcosa anche sulla riforma del Codice della Famiglia, la Moudawa­na. La trasferta può durare un giorno o anche una settimana. Ora poi è più facile perché c’è una rete, dei contatti, che hanno maturato una certa esperienza. Per cui, io posso andarci per un giorno o anche solo per mezza giornata e poi loro si arrangiano.
Anche in queste situazioni ho sempre in mente i giovani, per cui penso a cosa li potrebbe interessare. In genere propongo delle tavole rotonde in cui possano di­scutere liberamente con la persona invitata su qualche tema che li appassioni, ma da pari, infatti non si tratta mai di lezioni frontali.
Una volta consolidati i rapporti lavoriamo molto con le scuole superiori, ma an­che con associazioni, le Ong, ecc.

I giovani sono assolutamente sedotti dall’Europa: per loro è la libertà, e molte al­tre cose ancora. In Marocco c’è una tradizione pesante, che tende ad autoali­mentarsi e che i giovani sentono come claustrofobica. Bisogna poi considerare che quelli che emigrano sono persone che non hanno soldi. Non parlo di quelli mandati a studiare negli Stati Uniti, o in Francia d’estate. Più spesso è gente mai uscita dal proprio villaggio, piena di sogni e con poche conoscenze. O sem­plicemente giovani che hanno finito le scuole superiori e scappano da un futuro senza prospettive lavorative.
In più, se vuoi, ora che nel mondo arabo c’è un antiamericanismo molto forte, so­prattutto per quanto sta accadendo in Iraq, l’Europa, la Francia catalizzano tutti i loro sogni di democrazia e di libertà.
Tempo fa abbiamo organizzato una giornata sulla migrazione e i giovani, per ca­pire perché partono, con che aspettative, ma soprattutto per capire cosa sanno. Spesso infatti si sono fatti un’idea del tutto sfasata rispetto alla realtà. Recente­mente abbiamo fatto una vera inchiesta su 500 persone a cui è seguito un work­shop. Questo è un ambito che mi sta molto a cuore e su cui sto lavorando. Non ho ancora risultati precisi. Certo è stato inquietante scoprire che tutte le loro no­zioni sull’Italia o la Francia vengono dalla televisione, peggio: dalla pubblicità. In­fatti ora stiamo valutando l’ipotesi di produrre un documentario, insomma di fare qualcosa perché sappiano davvero dove stanno andando. Comunque mentre si tenevano queste iniziative sono morte due persone che avevano tentato di anda­re in Spagna clandestinamente.

E’ vero, a volte partiamo per l’Europa con grandi sogni e speranze e poi andia­mo a sbattere contro fenomeni di razzismo o discriminazioni o anche solo indif­ferenza.
Io conosco una ragazza davvero brillante, che è andata in Francia. Lei porta il ve­lo, ma è una persona molto libera. Ecco, a lei l’esperienza francese non è pia­ciuta per niente. Ha avvertito molto razzismo, e poi ha denunciato l’assenza di calore umano, soprattutto a Parigi.
Ora è rientrata in Marocco e là non ci vuole più tornare -eppure ha avuto una bor­sa di studio per rimanere a studiare in Francia, ma non c’è niente da fare: non ne vuole più sapere, vuole rimanere in Marocco.
Le esperienze di chi emigra comunque sono varie. Non voglio semplificare.
Anzi, forse la nota più dolorosa riguarda il fatto che chi emigra è disposto anche a subire atti di razzismo pur di vivere in un paese democratico. Questo forse dà l’idea della cappa che c’è dove i diritti sono approssimativi.
Ad ogni modo bisogna tenere a mente che chi emigra è perché è costretto, per cui l’idea ricorrente è quella di stare in quel posto per alcuni anni -potrebbero es­sere anche 30 anni- per poi ritornare a casa. Questo pensiero addolcisce un po’ quel che succede mentre uno è fuori. Si è pronti a sopportare di tutto pur di com­piere la propria missione. Per i marocchini che emigrano forse la maggiore soffe­renza riguarda la lontananza dalla famiglia e l’assenza di relazioni umane; que­sto nell’inchiesta lo lamentano tutti. E però non mollano: nella loro testa, sono partiti per lavorare o studiare, dopodiché torneranno…

Molti marocchini vanno a cercare fortuna in Francia. C’è una relazione privilegia­ta con la Francia, anche per la lingua, che è poi l’eredità del passato coloniale.
E’ curioso, ma io poi mi accorgo che rispetto ai francesi continuo a soffrire di una sorta di complesso di inferiorità, peraltro alimentato dal loro atteggiamento. Voglio dire, anche con alcuni miei cari amici, a cui voglio molto bene, c’è sem­pre questa relazione per cui loro sono migliori di me. Anche nelle discussioni. Quando per esempio io dico qualcosa sulla guerra, su quel che succede in Iraq è come se avessi meno legittimità di loro. Eppure io ho la possibilità di vedere i canali arabi, oltre a quelli inglesi o francesi. Insomma paradossalmente forse ho più strumenti di loro, più informazioni. Invece da un lato loro restano sempre mol­to colpiti se glielo faccio notare e dall’altro nemmeno io forse riesco a liberarmi da questa sensazione. Resta il fatto che i marocchini sono tendenzialmente molto aperti al resto del mondo: per la geografia, ma anche perché spesso hai parenti in Italia, in Spagna, ecc. I giovani da noi conoscono tutte le squadre di calcio italiane…
L’ho già detto, per loro l’Europa è respirare, è la libertà. E internet è importante -nell’inchiesta tutti lo dicono- perché quando si hanno problemi di visto, con inter­net i giovani possono comunicare, e con il telefono via internet comunicano mol­to di più. Ora c’è questo software, Skype, che è gratis, che per me è stata una vera rivoluzione, ha proprio cambiato i miei rapporti personali.
Mio fratello vive negli Stati Uniti. Telefonare dal Marocco agli Stati Uniti è carissi­mo; dagli Stati Uniti in Marocco non è così caro, ma dal Marocco sono costi as­surdi. Poi ho uno zio che vive in Francia, fa l’insegnante. Ecco, ora non solo pos­siamo sentirci quando ci pare, ma possiamo anche fare delle conferenze a tre, si può discutere. Io non posso che essere entusiasta delle opportunità che offro­no le nuove tecnologie. La gente ha paura della globalizzazione, ma io trovo, ad esempio, che internet stia in qualche modo umanizzando il mondo, perché ci av­vicina, ci fa conoscere…

Io sono musulmana, faccio il Ramadan, ma questa rimane una questione tra me e me, anzi tra me e Dio. Infatti non lo dico neanche mai. La religione è questo, niente a che vedere con guerre e terrorismo. Del Corano a me infatti piacciono in particolare i passi che dicono che camminando non si deve fare rumore… Mi sembra sia un invito alla modestia e al rispetto: quando cammini non fare rumo­re, cammina piano…
Credo che il mio atteggiamento sia dovuto anche all’educazione che ho ricevuto. Io sono cresciuta in mezzo a iracheni cristiani, ebrei marocchini, francesi… I miei genitori non hanno mai fatto riferimento a una differenza con queste perso­ne, eravamo tutti uguali. La mia famiglia fortunatamente è sempre stata molto aperta, agli altri e al mondo. Quindi anche i soldi e le opportunità poi contano fi­no a un certo punto: i miei genitori venivano proprio da un paesino, erano anche molto conservatori su certe cose, però io sono stata educata al rispetto, mai all’odio, e questo è molto importante. Inoltrarsi nelle campagne e nelle monta­gne è un’esperienza molto formativa. Io ho imparato molte cose.
In questi luoghi, per esempio, le donne anziane sono rispettate. Lì è la donna che comanda. Ed è stato davvero incoraggiante scoprire che queste donne, ma­gari analfabete, sono desiderose di imparare, hanno una sorta di venerazione per la cultura e per chi sa. Spesso ti dicono: “Io non so leggere e scrivere; voglio che i miei figli imparino molte cose”. In Marocco, come dicevo, il tasso di analfa­betismo è molto alto: ci sono intere generazioni di donne che non sono andate a scuola, soprattutto al Sud. Mia madre non è andata a scuola. Mio padre sì, ma lei no.
Oggi però le cose stanno cambiando, una donna può andare a scuola, può muo­versi, lavorare, molte giovani donne sono indipendenti, possono viaggiare… Poi c’è la nuova Moudawana, il nuovo Codice della famiglia. Il vero ostacolo a que­sto punto, più delle leggi, è la mentalità.
Purtroppo in quest’ambito ci sarebbe un gran lavoro da fare, soprattutto da parte degli intellettuali, parlo anche degli intellettuali marocchini, che invece tendono a non assumersi le proprie responsabilità, a non sentirsi coinvolti. Perché oggi il cambiamento in Marocco non riguarda solo le donne e non bastano le leggi, ri­guarda soprattutto la mentalità.
E’ vero c’è la nuova Moudawana, ma se poi non cambia la testa delle persone… Infatti molta gente era contraria e oggi la rifiuta, molti poi non hanno neanche ben capito di cosa si tratti. Ho sentito dei ragazzi giovani uscirsene con frasi ti­po: “Ah, no, adesso non mi sposo più perché le donne condivideranno con me il mio patrimonio e tutto il resto”. Ridicolo: ma condividere con te che cosa? Non hai niente, sei uno studente! È incredibile…
Purtroppo sono stati commessi così tanti errori. Sono stata molto colpita da quanto accaduto a Londra, però anche i paesi europei hanno le loro responsabili­tà. In Francia, hanno sempre marginalizzato i maghrebini, anche gli imam più in­tegrati, però hanno lasciato che i sauditi predicassero, eppure noi lo sappiamo che il wahabismo è la corrente più pericolosa. Per decenni non si è prestata al­cuna attenzione alla nostra religione. Poi all’improvviso la si è iniziata a crimina­lizzare tout court, senza mai aver fatto alcuno sforzo per conoscerla. Non so…
E oggi ci troviamo in questa situazione, con l’Iraq che non può che fomentare ul­teriore odio. L’odio poi si alimenta dell’ignoranza. Io credo che per ridurre la se­duzione e il potere del fondamentalismo occorrerebbe intanto ridurre la grande frattura tra ricchi e poveri. Poi c’è l’educazione, che interpella anche i nostri pae­si. Dobbiamo istruire i nostri giovani, soprattutto dobbiamo insegnar loro a comu­nicare, a dialogare, anche con chi è diverso da loro. Però intendiamoci: per me dialogo significa essere allo stesso livello. Solo così ci può essere scambio. E questo in qualche modo deve valere anche se ci si vuole aiutare, non si può pre­tendere di aiutare qualcuno se intanto gli si calpestano le tradizioni, la religione, la sua cultura insomma.

Io non faccio che parlare dei giovani, dell’educazione, è sai qual è il paradosso? Che in Marocco non ci sono pubblicazioni per loro. Ora iniziano con quelle per bambini, ma pubblicano in francese perché tra gli sponsor c’è l’Istituto di cultura francese e l’ambasciata. Per avere un libro per bambini in arabo, puoi trovare qualcosa di buona qualità in Tunisia, o anche in Libano, ma meno buoni… Noi allo stato attuale importiamo i libri dal Cairo, ma anche lì il livello è mediocre. Questo è un grande problema in Marocco. Certe volte io ci rimango malissimo, soprattutto alla fine di questi incontri nei paesini quando vorresti regalare qualco­sa alle scuole dove sei stata e invece non hai niente da offrire…
E’ un peccato che non ci sia niente per i giovani, tra l’altro così è anche più diffi­cile coinvolgerli. Tra i miei sogni nel cassetto c’è da sempre quello di fare una casa editrice di libri per i giovani. Perché in Marocco non c’è. E non puoi sempli­cemente tradurre, perché i libri per bambini in particolare devono parlare di una realtà che loro sentano in qualche modo familiare, che possano riconoscere. Vo­glio dire, ci sono dei bellissimi libri in francese, bene, ma poi io non posso anda­re in un paesino dove mancano acqua e elettricità con un libro che comincia con “la mamma va al cinema…”!”"

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