Per metà della notte, udì un rumore come se qualcuno con una grossa pietra stesse scavando un buco nel muro di cinta del suo cervello.
Di nuovo la notte. La signora May cerca di dormire ma fa sogni agitati. E il sogno non è altro che un modo raffinato con il quale le preoccupazioni del reale piovono dentro le ore notturne. Ci seguono e ci perseguitano. Infatti:
La signora May si svegliò con una mano sulla bocca e lo stesso rumore, più fioco ma chiaro, nelle orecchie. Era il toro (…). Il signor Greenleaf l’aveva lasciato andare.
C’era da aspettarselo. Lo ha fatto di proposito, oppure è frutto di una condotta da mascalzone del signor Greenleaf? Dettagli inutili. Il toro è ancora libero di gironzolare nella fattoria, in quella fattoria c’è un fattore che lavora (o dovrebbe farlo), ma che lascia che le cose vadano in malora del tutto tranquillamente.
Anche se la signora May fa di tutto per rendersi poco simpatica, alla fine si è quasi indotti a schierarsi dalla sua parte. È una donna che vive in una realtà che non apprezza affatto le donne, se ne approfitta. È l’uomo che comanda, e la donna vive della sua luce riflessa. Se costei è sola non ha molte speranze di appoggio e aiuto. I figli della signora May pensano ad altro, e il fattore idem.
La mattina seguente aspettò fino alle undici in punto.
Per quale ragione? Ma per vedere se il signor Greenleaf prende dei provvedimenti! Anzi, la sera prima la signora May aveva affermato che quella mattina avrebbero ucciso il toro. La sua intenzione era chiara, e il fattore aveva ascoltato in quanto provvisto di orecchie. Non si fa vedere. Allora va a cercarlo. Lo trova nella stalla mentre pulisce i bidoni del latte.
Erano due settimane che lei gliel’aveva ordinato.
Ovvio. Proprio quel giorno lui si ricorda di un lavoro da portare a termine.
“Benissimo, signor Greenleaf. Vada a prendere il fucile. Si va a uccidere quel toro.”
“Pensavo che lei volesse che i bidoni…”
“Vada a prendere il fucile, signor Greenleaf,” ordinò lei, con la voce e il viso del tutto inespressivi.
Dialogo semplice. C’è da ristabilire la gerarchia delle cose da fare, e ammazzare il toro ha la priorità. Però il fattore non è che sia poi così convinto.
“Quel gentiluomo è scappato dal recinto, stanotte,” mormorò il fattore, (…)
“Vada a prendere il fucile, signor Greenleaf,” ripeté lei, con la stessa voce atona e trionfante.
La signora May, qui come altrove, è la protagonista della storia. È lei che seguiamo dall’inizio, e il signor Greenleaf pare essere un banale satellite di cui siamo a conoscenza solo perché riceve la luce dal sole. In realtà non è proprio così. Adesso che ci avviciniamo all’epilogo, possiamo per un attimo concentrarsi sui personaggi.
Accuratezza e prudenza devono essere le caratteristiche con le quali costruire i personaggi; di solito, in un racconto esiste il rischio di farne uno “grande e grosso”, capace però di stritolare gli altri.
L’esito può essere catastrofico, poiché a meno che non sia un individuo che si muove nel deserto, avremo una misera storia.
In questo racconto Flannery O’Connor sembra scrivere una storia con una protagonista, e un personaggio di scarso spessore come il fattore. Che non sia così lo dimostra proprio il titolo del racconto (“Greenleaf”).
Non solo.
La difficoltà di una storia del genere risiede tutta nel rendere quello che è secondario, di vitale importanza per la crescita e lo sviluppo della storia. In effetti, si sarebbe portati a chiamare questo racconto “Il toro” oppure “Il toro della signora May”. Tutto viene descritto dal punto di vista di questa donna sola, circondata da uomini mentecatti o menefreghisti. Invece abbiamo a che fare con un titolo che recita “Greenleaf”.
Flannery O’Connor desiderava puntare l’attenzione sul fattore perché è grazie a lui che l’episodio banale di un toro che scappa ed entra in un terreno vicino, assume un altro valore. Il trucco (se vogliamo chiamarlo in questo modo), sta nel prendere qualcosa di quotidiano, e innestarlo su un elemento capace di dargli uno sviluppo imprevisto. Noi stiamo andando verso un capolinea a sorpresa in effetti, ma facciamo finta per adesso di non saperlo.
Il signor Greenleaf non è utile soltanto perché è l’esatto contrario della signora May: tonto (ma sarà davvero così?), scansafatiche e lento di comprendonio. Queste sono caratteristiche che paiono evidenti, anzi lo sono, ma che possono essere delle maschere, trucchi per celare in realtà una volontà precisa. Proteggere i figli, se stesso. È un uomo che non ha alcuna cultura (ma questa l’avranno i nipoti), e che sopravvive nel solo modo che conosce. Come gli organismi-ospite che alloggiano su certi animali, lui ha trovato nella fattoria della signora May l’habitat ideale.
C’è dell’altro. L’ottusità che dimostra quando ci si rivolge a lui per ottenere qualcosa, spesso appare come un sistema raffinato (ma ne è consapevole?) per indicare l’esistenza di qualcosa di differente. Uno specchio anche se rotto riflette sempre qualcosa. Il signor Greenleaf, questo preciso signor Greenleaf, serviva a uno scopo: mostrare attraverso un’immagine deformata una realtà anch’essa deformata dall’ipocrisia.
Non mi sorprenderei affatto se si scoprisse che le maggiori difficoltà nella scrittura di questo racconto, siano state proprio nel fattore. La signora May è “semplice”, ma è al signor Greenleaf che viene delegato l’arduo compito di portare alla luce il cuore di una realtà definita. Quella di un sud degli Stati Uniti che non ha armi da opporre a una violenza che si traveste di denaro, opulenza, cultura e benessere non per liberare l’uomo. Ma per addomesticarlo.
Sì, anche la cultura può asservire.
Come scrivere un racconto /21 – Greenleaf di Flannery O’Connor