il generale Dalla Chiesa con la moglie
Sono trascorsi trent’anni dal giorno in cui Carlo Alberto Dalla Chiesa, il nuovo Prefetto di Palermo, e la moglie Emanuela Setti Carraro vennero trucidati dalla mafia nella città sicula. Un avvenimento che sconvolse milioni di Italiani ma che, ironia della sorte, trent’anni dopo viene appena ricordato da televisioni, giornali e dai nostri stessi rappresentanti politici. Quasi che la mafia fosse storia vecchia, da relegare ormai a qualche polveroso annale.
Carlo Alberto Dalla Chiesa, però, era un uomo dello Stato e come tale merita di essere ricordato, non solo a Palermo. Figlio di un generale dei carabinieri, aveva preso parte alla Resistenza poco più che ventenne e, subito dopo la fine della guerra, era giunto a Corleone con il grado di capitano per combattere la mafia. Tra i tanti casi di omicidio che richiamarono la sua attenzione, forse il più eclatante fu quello che vedeva vittima il sindacalista Placido Rizzotto. Denunciò alcuni nomi alla magistratura, ma presto gli imputati vennero assolti per insufficienza di prove e Dalla Chiesa venne trasferito, in ordine, a Firenze, Como e Milano. La sua carriera, negli anni Settanta, si legò presto all’ideale della lotta al terrorismo, che il ministro Paolo Taviani ritenne essere indispensabile in un panorama sociale e politico molto teso, segnato da frequenti omicidi di rappresentanti dello Stato, rapimenti e gambizzazioni. Il 22 maggio 1974, a Torino, videro la luce i Nuclei Speciali Antiterrorismo con a capo proprio Dalla Chiesa, all’epoca poco più che cinquantenne. Pochi mesi dopo, l’8 settembre, arrivò ai giornali la notizia dell’inaspettato arresto degli ideatori delle Brigate Rosse, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Un evento eccezionale cui fecero seguito, tuttavia, dure polemiche soprattutto da parte di chi accusò il generale comasco di non aver saputo attendere che i tempi fossero maturi per catturare il vertice dell’organizzazione al gran completo, soprattutto con la figura di spicco di Mario Moretti, che 4 anni dopo organizzerà il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. Proprio dopo la scomparsa di Moro, Dalla Chiesa intraprese la più grande battaglia anti-terrorismo degli anni Settanta e Ottanta, giungendo, grazie al contributo del pentito Patrizio Peci, a identificare uno dei nascondigli preferiti delle BR in un appartamento di via Fracchia a Genova. Il 28 marzo 1980 il nucleo antiterrorismo fece irruzione nella “tana” uccidendo 4 militanti e riportando il grave ferimento di un maresciallo dei carabinieri.
Due anni dopo, nell’aprile 1982, Dalla Chiesa venne inviato di nuovo laddove la sua carriera era iniziata: in Sicilia. Ancora una volta, il nemico si chiamava mafia, ancora una volta lo Stato devolveva a uno dei suoi uomini il compito di intervenire con il pugno d’acciaio per porre freno al dilagare di assassini e infiltrazioni malavitose che ormai dissanguavano la terra sicula. Non passano nemmeno sei mesi che, alle ore 21 del 3 settembre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie e l’agente della scorta Domenico Russo restano vittime di colpi di kalashnikov i quali, se da un lato consegnano il generale al mito con l’appellativo di “Prefetto dei cento giorni”, dall’altro permettono a un palermitano anonimo di appendere sul muro del luogo in cui questa ennesima strage si è consumata, un cartello emblematico: “Qui è morta la speranza dei Siciliani onesti”.
“ Credo di aver capito la nuova regola del gioco- aveva raccontato Dalla Chiesa al giornalista Giorgio Bocca meno di un mese prima- Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è troppo pericoloso, ma si può uccidere perché è isolato”. Restano quindi la disillusione con cui i cittadini accolsero la notizia della sua morte, la desolazione con cui gli uomini dello Stato fanno quotidianamente i conti nelle terre martoriate dall’illegalità e, perché no, il menefreghismo di qualche politico che, non presentatosi neppure ai funerali, ebbe comunque il coraggio di dire: “Preferisco andare ai battesimi”.
Silvia Dal Maso