Cristian Sciacca
Nella tradizione popolare afgana, la “pietra paziente” (syngué sabour) è una pietra magica a cui è possibile raccontare le cose che non si direbbero mai a nessuno: quando si frantuma ci si libera dal peso di tutti quei segreti che le erano stati affidati. La protagonista del film Come pietra paziente, una giovane madre di due bimbe, ha per syngué sabour il proprio marito, in coma a causa di una pallottola piantata nel collo. Anziché rispettare la regola islamica che prevede di pregare per novantanove giorni accanto al consorte, la donna inizia un monologo senza pause in cui affronta tutte le privazioni e le negazioni di una vita subita più che vissuta: davanti alla sagoma inerte dell’uomo, intraprende un percorso in cui confluiscono ricordi, riflessioni ed emozioni, con svolte improvvise ed inattese. L’afgano Atiq Rahimi, passato da documentarista e scrittore, esordisce dietro la macchina da presa adattando al cinema il suo romanzo omonimo del 2008: la missione può dirsi riuscita perché la pellicola, pur non brillando dal punto di vista tecnico (specie per la regia, a volte ridondante e che a volte eccede nei piani sequenza), riesce a fornire numerosi, e spesso dolorosi, spunti di riflessione. In aggiunta, occorre sottolineare la difficoltà di resa sullo schermo del romanzo in questione.

Il film è sorretto dalla sensualità e dall’intensità della protagonista, la bellezza iraniana Golshifteh Farahani, in grado di dar vita ad un grido represso e poi liberato contro la femminilità negata ed una vita segnata dalla passività nei confronti dell’uomo sin dalla nascita. Il personaggio è tratteggiato in maniera convincente, ed è soprattutto questo a dar forza all’opera: da donna devota e paziente che assiste il marito, eroe di guerra, a figura forte ed anticonformista in grado di affrontare i dogmi di una società millenaria. «Mi sono sposata con te ma senza di te» dice la ragazza davanti agli occhi aperti ma senza luce dell’uomo che ha sposato a 17 anni, che in realtà si accorge di non conoscere, e da cui non ha mai ricevuto alcun segno d’affetto o di rispetto: sono anche i racconti della zia, una prostituta la cui giovinezza ricorda quella della nipote e di tante altre donne musulmane, a dar forza alla protagonista, permettendole di percorrere senza esitazioni un percorso analitico che la porterà ad una presa di coscienza decisiva.

I luoghi chiusi, spogli e squallidi dominano il lungometraggio, dall’abitazione in cui si consuma la vicenda allo scantinato in cui ci si rifugia per sfuggire alla guerra, fino alla casa di piacere: il luogo chiuso principale del film, però, è la mente della protagonista che, come detto, accedendo ai propri ricordi, si scopre ridotta ad oggetto, abituata a continue umiliazioni. È in quel momento che si assiste alla scoperta del proprio Io e del proprio corpo, fino ad allora condannato alla chiusura totale al mondo ed è grazie ad un avvenimento casuale, l’irruzione di un giovane soldato nella casa, che esplode questa piccola e privata rivoluzione femminile. Altro punto di forza di Come pietra paziente: l’equilibrio. L’opera abbonda di scene dure, a volte raccapriccianti (la donna che, alla vista della propria famiglia massacrata, inizia a delirare canticchiando) e non ha un lieto fine (o perlomeno, non ha una conclusione ottimista sullo sviluppo dei temi trattati): eppure, come per miracolo, traspare un minimo di speranza per tutte quelle figure, sparse in giro per il mondo e non solo di sesso femminile, che si rispecchiano nella persona della protagonista, che anche nella scena finale, quando metaforicamente parlando la pietra si frantuma, mostra in profondità il suo cambiamento.

«Tu sei stato ferito, ma sono io a soffrire», una massima che esprime con potente eloquenza la paura, la rassegnazione ma anche la rabbia di troppe vite condannate al silenzio da un mondo che il regista sintetizza con queste parole: «L’Afghanistan cristallizza tutte le contraddizioni umane possibili. Per me, oggi l’Afghanistan è come Guerre stellari di George Lucas: da un lato, la vita assomiglia a quella del Medio Evo (il modo di vestire, le relazioni sociali, i valori religiosi…) e dall’altro dispone degli armamenti più sofisticati del mondo». Come pietra paziente, insomma, merita ampiamente la visione, già solo per il coraggio mostrato sia negli intenti sia nella resa. Che il bieco femminismo se ne stia alla larga però, questo è l’augurio.
