Magazine Diario personale

Come tutto ebbe inizio - parte terza

Da Romina @CodicediHodgkin

 

L'ultimo episodio della saga "come tutto ebbe inizio" raccontava di come si arrivò alla diagnosi e al mio ricovero.
Avevo appena subito la biopsia e fatto la tac e stavo facendo il mio trionfale ingresso in terapia intensiva, a bordo di una barella.
La stanza era grande, con tre posti letto, ma il mio era l'unico occupato. Ho ricordi confusi di quel primo giorno, probabilmente perchè non ero completamente lucida. Ricordo solo che vennero a visitarmi e a presentarsi due medici. Mi colpì il fatto che erano molto giovani. Uno era il ragazzo dai capelli rossi che avevo visto quella stessa mattina entrando in reparto. Mi dissero di chiamarsi Luca e Andrea, e volevano che gli dessi del tu. Per tutta la durata del mio ricovero furono molto carini, si comportavano non da medici ma quasi da fratelli maggiori.
La mia famiglia non poteva rimanere in stanza con me. In terapia gli orari per le visite sono molto rigidi. Un'ora la mattina (credo dalle 12:00 alle 13:00) e una la sera (18:00 - 19:00). Poteva entrare una sola persona per volta e non potevano esserci cambi di visitatore, nel senso che, per dire, non poteva entrare mezz'ora mia madre e mezz'ora mio padre. O l'uno, o l'altra.
Quella notte mi addormentai non prima delle 4:00, come al solito. Venni svegliata la mattina presto dall'infermiere che mi fece il prelievo del sangue e mi chiese di far pipì nella provetta. Più in là nella mattinata passò per le visite il dottor Luca, quello con i capelli rossi. Presi il coraggio a due mani e gli posi la domanda più terribile che mi fosse mai capitato di fare:
"Io ho il cancro, vero?"
Non che non lo sapessi, ma presa com'ero da quel vortice non avevo ancora avuto modo di scendere a patti con questa storia. D'altro canto, nessuno lo aveva mai detto apertamente, no? Io avevo bisogno di sentirmelo dire.
"Si."
"Ok."
Se vi dovessi dire cosa si prova quando un medico ti guarda negli occhi e ti dice che hai il cancro, vi direi che non si prova assolutamente niente.
Tutto era ovattato. La voce del medico veniva da lontano. Fissavo il vuoto. Io credo che noi esseri umani abbiamo grandi risorse. Una di queste è il potere di anestetizzarci. In alcune situazioni, se dovessimo provare tutta la paura, il terrore, l'angoscia, la preoccupazione, lo smarrimento, lo sconcerto che la logica vorrebbe che provassimo, molto semplicemente il nostro cuore si schianterebbe. Invece non si prova nulla e si ha modo di metabolizzare e affrontare tutto un pò alla volta.
Il Dottor Luca sorrise e disse:
"Si, ok, hai il cancro, ma sei io proprio dovessi scegliere, sceglieri il tuo."
Il mio primo pensiero rispetto a questa esternazione, e che mi guardai bene dall'esporre, fu "che culo...".
"Muoio?"
"Non posso garantirti nulla al 100% ma secondo me no."
Ok. Ricapitoliamo: cancro è cancro. Però non muoio. Mi sembra già un punto di partenza tutto sommato accettabile.
"Sai" dissi al Dottor Luca "quando ho fatto la tac, ho sentito il radiologo pronunciare una parola che finiva in "-oma" ma non ho capito bene. Mi pare ci fosse una "m" o una "n". Poi" continuai indicando alcuni punti del mio torace "mi disse che ho del materiale qui, qui, qui e qui."
Il dottor Luca sorrise e disse:
"In radiologia parlano sempre troppo. Comunque, si penso di aver capito che parola hanno detto e anche io penso si tratti di quello".
"D'accordo. Mi dica tutto quello che devo sapere: cosa ha colpito? E' in fase avanzata? Dovrò essere operata?".
Si mise seduto sul letto e mi spiegò tutto quello che dovevo sapere, anche se mi disse che non aveva ancora il referto della biopsia e quindi dovevo prendere un pò con le molle quanto mi diceva. Mi disse che si trattava quasi certamente di un linfoma, mi spiegò cos'è di preciso il sistema linfatico e di come può essere aggredito da un tumore nè solido, nè liquido, che si comporta come un virus mandando in tilt il sistema immunitario che, facendosi fregare, reagisce come se dovesse combattere un virus e non un cancro. Mi disse che l'operazione non aveva senso: nel mio caso sarebbe stata enormemente invasiva (avevo una massa nel mediastino di quasi 11cm, più altre 3 tra i 4cm e i 5cm accanto al cuore e sotto al diaframma) avrebbero anche potuto aprirmi e togliere tutto, ma sarebbe servito a poco perchè trattandosi di una malattia sistemica, presto o tardi si sarebbero formate altre masse. Dovevo fare chemio e, verosimilmente, anche radioterapia.
Facevo il possibile per non piangere. Avevo paura che se fosse scappata anche una sola lacrima, avrebbe pensato che ero troppo fragile per sapere tutta la verità. Una cosa bella dei medici che ho incontrato è che mi hanno sempre detto tutto quello che dovevo sapere senza mai parlare prima con la mia famiglia e poi con me. Avevo molta paura che parlassero direttamente con i miei genitori e che a me arrivassero solo informazioni filtrate e censurate, ma non fu mai così.
Gli chiesi se durante la chemio avrei potuto continuare a studiare.
"Devi!" mi rispose.
"Potrò avere bambini?"
per rispondere a questa domanda, mi chiese di seguirlo. Mi portò nel minuscolo cubicolo dove visitava una delle ematologhe, anzi, proprio quella che poi divenne la mia ematologa. Rimasi a bocca aperta perchè, sebbene, ok, si trattasse di un minuscolo cubicolo, era pieno di foto di neonati con la loro mamma e il loro papà. Il dottore mi disse che quei bambini erano figli di ex pazienti. Anche in questo caso non poteva garantirmi nulla, ma secondo lui c'erano ottime possibilità che il mio apparato riproduttore non venisse irrimediabilmente danneggiato dalla chemioterapia.
Tornammo in stanza e mi lasciò lì a meditare sulle mie sventure. Una parte di me era molto, ma molto sollevata. Vedete, per come la vedevo io, l'idea di poter essere impazzita - idea tanto cara a quella scheggia del mio medico (in)curante - per me era devastante: come si fa a guarire quando si è fuori di testa?! Non che la chemio fosse rassicurante, ma ora che sapevo che ero perfettamente presente a me stessa e che ero nelle mani di persone competenti, sentivo di potercela fare.
Per i primi due giorni, ebbi la stanza tutta per me. Ricordo che la mattina del secondo giorno venni svegliata, dopo la bellezza di 4 ore di sonno, dall'infermiere che mi prelevò il sangue e mi chiese di far pipì in una di quelle scomodissime provette...pare che i pratici vasetti non andassero più di moda già all'epoca.
Quel giorno ottenni il permesso di uscire dal reparto per andare a trovare la mia famiglia in sala d'aspetto. Da quel giorno in poi, in effetti, sarebbe stato praticamente impossibile trovarmi in stanza.
Io. In una stanza di terapia intensiva. Ma siete matti? Ci stanno i malati in terapia intensiva. Io mica ero malata. Negare-negare-negare. Negare che per carità se per caso in famiglia si accorgono che sono perfettamente consapevole di essere nel guano fino al collo magari si preoccupano...io invece faccio la gnorri e passa la paura.
Un pomeriggio, i miei cugini mi portarono un fumetto dei Simpson. Un pò era divertente, un pò ero io che stavo cercando il modo di scaricare la pressione, fatto sta che iniziai a ridere da sola come una matta. Ero in terapia intensiva, avevo appena saputo di avere un linfoma, non avevo idea di come sarebbe finita eppure ridevo e non riuscivo a smettere. Non fu una risata isterica. Ok, forse in parte si, però fu principalmente liberatoria. Onde evitare che passasse qualche infermiera e che da terapia intesiva mi portassero a psichiatria direttamente e senza passare dal via, chiamai casa così almeno avevo un alibi.
Rispose mio padre. Io credo che quando mi sentì senza fiato (ero diventata paonazza e ridevo a lacrime) come prima cosa abbia pensato che ero in preda alla disperazione più nera. Poi gli ho raccontato del fumetto e si è definitivamente convinto di avere una figlia scema, cosa che secondo me sospettava già da anni. Non sapendo come trattare con una pazza, mi ha passato mia madre, che da quando ero ricoverata aveva pianto tutte le sue lacrime e che però non era preparata all'eventualità che io la chiamassi ridendo.
Nel frattempo, mi stavano bombardando di medicine. Prendevo il cortisone, il trimeton contro il prurito e non so che altro. L'unico problema delle terapie era che non le prendevo mai alla stessa ora. Ma non perchè si dimenticassero di portarmi le pasticche: semplicemente non mi trovavano mai in camera. Alla fine, entravo e uscivo come mi pareva. Chiudevano un occhio perchè ero la più piccola del reparto (21 anni) e perchè tutto sommato potevo permettermi di uscire dalla stanza, non correvo rischi. E poi era già abbastanza avvilente quando mi venivano a trovare in camera, tutti bardati con camice, copriscarpe e cuffie. Facevo prima ad uscire io, così potevo vedere più di una persona per volta. Una sera, ricordo che dopo cena mi defilai senza dare nell'occhio per andare ai distributori automatici a prendere una cioccolata calda. Settembre era alle porte ma ricordo che quella sera pioveva forte e quindi qualcosa di caldo ci stava. Il problema fu che nel frattempo avevano chiuso a chiave il reparto e io ero rimasta chiusa fuori. Porca miseria, ma che si chiudono i reparti così, senza preavviso?! Per fortuna c'era il citofono. Sfortunatamente mancava chi rispondesse al citofono (era ancora periodo di vacanze e c'era sempre la solita povera infermiera - dolcissima - che stava lì giorno e notte, in quel momento era con un paziente che stava male e non poteva sentire il citofono). Dopo quasi mezz'ora di attesa, finalmente vennero ad aprire, proprio quando meditavo di chiedere asilo politico in pediatria.
Il fatto che tutto sommato fossi più serena, non cambiava la realtà dei fatti: ero malata e i sintomi di certo non erano spariti. Ricordo che una sera iniziai a tossire ferocemente, non respiravo più, ero andata in apnea e gli infermieri non riuscivano a farmi smettere. "Mettila mezza seduta" disse uno "e mica è cardiopatica!" rispose l'altro.
Una mattina Luca e Andrea vennero a coppia per la visita, sentii dal rumore che si erano portati dietro il carrellino di metallo. Io mi stavo lavando i denti, loro pensavano che fossi in giro come al solito e li sentii dire "Non c'è, è scappata"
Brutto segno. Brutto, brutto segno. Quando vengono a coppia la cosa non è mai rassicurante. Soprattutto quando si trascinano dietro il carrellino con gli strumenti di tortura. Quasi quasi faccio finta di non essere in casa...ermh, in stanza. L'idea di mimetizzarmi con le piastrelle del bagno durò solo un secondo. Con lo spazzolino ancora in bocca mi affacciai, li guardai, sospirai, mi sciaquai la bocca e tornai da loro.
Andrea, tutto felice mi annunciò "Romina, indovina? Hai vinto una biopsia midollare!"
"Che culo! Ci speravo. In fondo la quarta biopsia in 3 giorni ci sta tutta. Dove andiamo?"
"Da nessuna parte, la facciamo qui."
"Una biopsia. Un'altra. Ce n'è proprio bisogno?"
"Si, questa è diversa. Ci serve un campione del tuo midollo"
"Mmh. Bhe, mi sembra ovvio, e che le volevo tutte uguali, le biopsie? Bisogna cambiare..."
"Ci serve anche un pezzettino del tuo osso, in realtà..."
"Eh?! Stai scherzando?"
"No, ma non ti preoccupare, non è brutto come sembra."
"E certo. Mica è il tuo osso, è il mio!"
"Ma quanto sei polemica! Sdraiati!"
Con una faccia patibolare che pagherei per poter vedere, mi sdraiai in posizione fetale come mi era stato indicato. E di nuovo la trafila che avevo già sentito e che avrei sentito altre volte ancora:
"Ora sentirai una cosa fredda, è il disinfettante. Poi un pizzicotto, è la puntura per l'anestetico".
In quella fase, le punture ancora mi mettevano un pò in crisi.
Mentre Luca mi bucava il fondoschiena e carotava un campioncino della mia cresta iliaca, Andrea mi stringeva la mano e chiacchierava. Ho conosciuto pochi uomini che chiacchierano tanto quanto lui. Uno di questi è il maschio alfa, che però almeno non mi fa biopsie. Secondo me anestetizzava lui a suon di chiacchiere, era solare, divertente, era rassicurante. Luca parlava molto meno ma era delizioso anche lui.
Dopo un tempo che ora non saprei quantificare, Luca annunciò soddisfatto di aver finito e mi chiese se volevo vedere il mio osso. Certo che voglio! Quando mi ricapita di vedere l'osso del mio stesso fondoschiena?!
Dopo aver contestato le dimensioni secondo me eccessive del campione - 2cm! - continuai la mia giornata un pò dolorante. Ricordo che la sera mi telefonò Nipotonzolo Numero Uno, che all'epoca aveva 3 anni e mi chiese, come prima cosa:
"Zia, ma il dottore ti ha fatto un buco?"
Potevo lasciar cadere nel vuoto l'occasione per farmi compatire da mio nipote? In fondo, mia sorella gli aveva detto che il dottore mi aveva bucato, era vero.
"Si, amore, mi ha fatto un bucone sul sedere!"
"Ma fa male?"
"No, non fa male, però ho il cerotto..."
"Quando vedo quel bruto che ti ha fatto il buco gli dico di non farlo più!"
"Bravo, difendimi!"
"Credo fosse il quarto giorno quando chiesi ad una dottoressa quando mi avrebbero dimessa. Lei mi disse che era venuta proprio per dirmi che purtroppo c'era stato un problema.
Nonostante le biopsie al torace fossero state 3, non erano riusciti a prelevare materiale sufficiente e quindi avrei dovuto essere trasferita in chirurgia toracica per subire una mediastinoscopia. Fioccarono pensieri irripetibili nei confronti del maleducato che mi fece la biopsia, quello che si lamentò perchè avendo io una crisi di panico non gli consentivo di lavorare. Avrei tanto voluto andare da lui e dirgli dove gliel'avrei fatta io, la biopsia...e senza anestesia!
Fatto sta non presi benissimo la prospettiva di essere trasferita in chirurgia. Non era così male la terapia intensiva. Mi ero creata il mio giro. Tutte le mattine o quasi, avevo un prelievo, poi i miei genitori portavano i cornetti ai dottori (ora che ci penso...perchè ai dottori si e a me no?!), poi aspettavo che passasse la visita per uscire a fare 4 chiacchiere con chi mi era venuto a trovare, poi iniziava la visita ufficiale, pranzo, leggevo qualcosa...diciamo che per come avevo vissuto gli ultimi 8 mesi (anche dieci, a ben vedere) stavo benissimo.
Come se la notizia del mio trasferimento non fosse di per sè sufficientemente perniciosa, mi ritrovai in camera una signora. Avava la leucemia. Sfortunatamente, era anche una persona estremamente rumorosa, fastidiosa e se la vogliamo dire tutta, russava come un cinghiale.
Da quel momento in poi, trovarmi in stanza sarebbe stato praticamente impossibile. Ricevevo solo su appuntamento. Nelle altre 2 stanze, c'erano solo ombre. Ogni tanto vedevo questi pallidi spettri gonfi che passeggiavano lentamente sostenendosi all'albero delle flebo. Inizialmente mi facevano paura. Avevo paura perchè in loro vedevo quello che poteva succedere a me. Un giorno mi feci coraggio e attaccai bottone con una ragazza. Era simpatica, rideva sempre. Il pomeriggio con lei e uno o due altri malati giocavamo a monopoli o a carte.
Un giorno mia madre mi riferì che Luca, mio fratello di quasi 13 anni, l'aveva presa in disparte e le aveva chiesto di non nasconderle niente. Quella sera scrissi una lunga lettera a mio fratello. Chiesi alle infermiere una spillatrice e spillai per bene il foglio. Chiedendo di essere messo a parte di tutto, mio fratello si era comportato da adulto, e da adulto andava trattato. Spillando il foglio gli avrei dimostrato che mi rivolgevo esclusivamente a lui e che quanto era scritto lì non era passato dalla censura bonaria dei nostri genitori.
Per il resto, fu in quella fase che gettai una base fondamentale del mio percorso sanitario: c'era bisogno di ridere. Tanto il danno era fatto. Bisognava ridere. Per fortuna, elementi sani di mente in casa non ce ne erano. Mio padre non faceva che dire che con cuffia e copriscarpe sembrava George Clooney in E.R.
Giuro che ho provato a spiegargli che non basta essere brizzolati per somigliare a Clooney ma non ha mai accettato l'idea. Mia sorella si sistemava la cuffia come fosse un baschetto, tutta di traverso, per essere più fashion. Cercavamo, per quanto possibile, di farci una risata. Poi, magari, quando ci trovavamo da soli ci lasciavamo andare e allora si piangeva.
Confesso che ero molto dispiaciuta per la mia famiglia, mia madre in particolare. Erano tutti in preda al senso di colpa. In particolar modo mia madre, accanita sostenitrice della teoria dell'esaurimento. Lei era l'unica che faceva fatica a ridere, anche perchè era lei che aveva l'incombenza di andare dal medico (in)curante, farsi fare le ricette e portarmi le medicine in ospedale. Lei non solo doveva subire il dolore di una madre con una figlia malata, doveva anche fare i conti col senso di colpa e provvedere all'organizzazione logistica.
Un paio di sassolini dalla scarpa con il mio medico di base me li sono tolti, ma col tempo ho deciso di smettere di attaccarlo. Inizialmente mi arrabbiavo perchè mamma lo difendeva. Ripeteva che non poteva pensare ad un linfoma, che era più logico pensare allo stress. "Si" le rispondevo io "per un mese forse, non per otto! E' lui il medico, è lui che deve capire, non è normale che gli venga spontaneo prescrivere sonniferi e non far fare le analisi!". Poi, col tempo, ho capito che mamma lo difendeva perchè era il suo modo di non soccombere al senso di colpa. Ho capito che se, almeno all'apparenza, avessi perdonato il dottore (cosa che non ho fatto e non farò mai, perchè non può un medico dare ad un linfoma il tempo di arrivare al penultimo stadio senza fare qualche accertamento) mamma si sarebbe sentita a sua volta perdonata. Quanto meno da me, sebbene non da sè stessa.
Comunque, per chiudere il discorso, un bel giorno mi fecero impacchettare le mie cose (che dopo quasi 10giorni erano diventate tantissime!) e mi spostarono dalla terapia intensiva alla chirurgia toracica.
Purtroppo, senza una biopsia che ne desse conferma, nessuno poteva dire che avevo un linfoma di Hodgkin, variante sclero-nodulare al 3°stadio (terzo su 4, per la cronaca).
E così ebbe inizio la mia avventura chirurgica, ma questa è un'altra storia...
 


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