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Come valorizzare un’area col turismo di qualità

Creato il 04 gennaio 2012 da Fabry2010

Pubblicato da giovanniag su gennaio 4, 2012

DALLA MAREMMA UNA LEZIONE PER LE VALLI APPENNINICHE PIEMONTESI

Articolo di Marco Grassano

Come valorizzare un’area col turismo di qualità

Daini sotto gli ulivi maremmani

Lo scorso giugno ho fatto, con la famiglia, un “tour” tra Assisi e la Maremma; in quest’ultima zona, in particolare, ho osservato un modello di “gestione” del turismo che potrebbe funzionare egregiamente anche da noi, se solo lo volessimo davvero adottare. Tutto ruota attorno al valore ambientale dell’area, in Toscana garantito da un parco regionale (come lo sono in provincia di Alessandria, tanto per intenderci, il Parco del Po e dell’Orba o quello delle Capanne di Marcarolo) – ma si potrebbe anche partire da una zona protetta della Rete Natura 2000, quale quella del Monte Antola, magari estendendola alle Terre del Giarolo, che dal punto di vista della biodiversità non hanno nulla da invidiare a molte altre realtà più rinomate (mi pare però che la Comunità Montana abbia deliberato, non molto tempo fa, l’espressione di parere negativo alla creazione di un’area di salvaguardia, voluta dalla Regione… forse per timore di avere le mani legate, o forse in obbedienza all’ormai abusato principio “padroni in casa nostra”, che in una società civile deve invece essere, necessariamente, limitato dal prevalere degli interessi collettivi, a partire dalla tutela del territorio). 

Come valorizzare un’area col turismo di qualità

Una carrozza per girare nei boschi della Maremma

È importante capire, a tale proposito, che un Parco o una zona protetta non sono un vincolo negativo, come comunemente si tende a credere se si rimane chiusi nel proprio orticello (e nei propri pregiudizi), ma semmai un’opportunità di sviluppo in più. Pensiamo, per esempio, alla caccia. In Maremma, il piccolo cinghiale autoctono della tradizione etrusco-romana è stato soppiantato, abbastanza di recente, dal più grosso e assai più prolifico “cinghialone” importato dalla Polonia-Ungheria. Altra specie introdotta una sessantina di anni fa, e adesso assai diffusa, è il daino. Ora, cinghiali centro-europei e daini sono particolarmente voraci e quindi, se in soprannumero, dannosi per l’ambiente (in quanto elementi estranei immessi in un ecosistema equilibratosi senza di loro e pertanto impreparato a contenerli), per cui la gestione faunistica operata dal Parco prevede periodici interventi di controllo della loro popolazione, posti in essere col coinvolgimento diretto dei cacciatori. Non è quindi vero che nel Parco non si può cacciare: solo, non lo si può fare in modo dannoso per la biodiversità, come quando, quarant’anni or sono, si provocò la sparizione dal territorio nazionale del falco pescatore (che ora si sta cercando di reintrodurre acclimatando pulcini prelevati in Corsica). O pensiamo all’agricoltura. All’interno del Parco della Maremma vi sono coltivazioni private, e di pregio per di più (per esempio, i mirtilli, dai quali si ricava una squisita marmellata, che ho assaggiato con piacere), oltre ad un’Azienda Agricola Regionale che produce olio e vino, e a mandrie di cavalli e di bovini (di razza maremmana, con lunghe corna arcuate) al pascolo. Certo, bisogna coltivare in modo da non danneggiare l’ecosistema (e può anche capitare che i prodotti ottenuti siano più remunerativi degli altri… vedi, appunto, il caso dei mirtilli). E, certo, bisogna rispettare, in generale, l’ambiente: ovunque, in Maremma, dall’agriturismo, al parcheggio, alla spiaggia, si trovano i cestini per la raccolta differenziata dei rifiuti, vengono adottati criteri di risparmio energetico, si cerca di evitare lo spreco di acqua… si tratta di un fastidio, o più semplicemente di buon senso?

Come valorizzare un’area col turismo di qualità

Un recinto per la cattura dei cinghiali, sempre in Maremma

A questo dato di partenza “pubblicistico” (cioè al Parco e alle sue implicazioni) i maremmani hanno però saputo abbinare (ed è lì che si trova la chiave del loro successo) un elemento organizzativo “privatistico”: il Consorzio Aziende Parco della Maremma, nel quale si sono riuniti agriturismi ed altre strutture ricettive, produttori agricoli ed operatori vari nel settore del terziario.

Il Consorzio ha un ufficio presso la sede del Parco, ed un sito internet con le varie offerte, sia di soggiorni che di prodotti. Semplicemente scrivendo una mail (o telefonando), si possono ricevere proposte di agriturismi fra le quali scegliere per la propria permanenza; il Consorzio si fa quindi carico di effettuare la prenotazione secondo le indicazioni che gli forniamo. Non solo, ma il Consorzio, di concerto col Parco, noleggia biciclette per percorrere le apposite piste, organizza escursioni guidate lungo i percorsi naturalistici, tiene i contatti per gite in carrozza (nei boschi) o in canoa (sul fiume Ombrone), propone degustazioni di prodotti tipici, quali salumi, formaggi, olio di oliva, vino… Mi sento di poter affermare che l’impegno economico per la singola azienda consorziata sia minimo (il costo per i servizi forniti è infatti coperto in gran parte, se non in toto, dall’acquisto dei relativi biglietti), ma il risultato globale, in termini di afflusso turistico (e quindi di denaro speso sul posto, con evidente beneficio per tutti…), è notevole: ho potuto incontrare una quantità di visitatori italiani di ogni regione, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, e poi tedeschi, francesi, inglesi e così via…

I maremmani di Alberese (sede del Parco e punto di riferimento per tutte le suddette attività) sono i discendenti dei veneti insediatisi nei primi anni Trenta per realizzare la bonifica di quest’area (allora) paludosa, promossa dall’Opera Nazionale Combattenti. Sulle loro tavole si mescolano elementi tipici locali (la panzanella, l’olio d’oliva…) ad elementi della tradizione d’origine (la polenta, la grappa…): un po’ come è capitato con la panissa, riportata in Alta Val Curone dai contadini scesi in pianura per la “campagna del riso”. Sono stati per decenni tenaci lavoratori (e lo sono ancora, l’ho constatato di persona), ed ora raccolgono, legittimamente, un meritato frutto: non solo delle proprie fatiche, ma anche del proprio coraggio di mettersi in gioco, di rinunciare ad un pezzetto di miope egoismo, di lavorare con gli altri per tentare qualcosa di nuovo – una scommessa che è stata vinta alla grande.
Se vogliamo, le analogie con le nostre valli sono notevoli, e cito, una per tutte, la produzione del carbone di legna: nei boschi si possono ancora trovare piccole “radure” circolari, ove, fino a una settantina di anni or sono, venivano allestite le “carbuneine” (non so come le chiamino loro in lingua locale); il Parco, come il Circolo Lunassese, ha riunito, un po’ di anni fa, i suoi “ultimi carbonai” per filmarne l’attività e lasciarne testimonianza alle generazioni future (sarebbe magari utile uno scambio di questi documenti, ed un confronto delle rispettive tecniche…).

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Il Giarolo mentre si avvicina il tramonto

A questo punto, agli operatori locali delle Terre del Giarolo (e ai navigatissimi amministratori, “comunitari” e comunali) si presentano due possibilità: o attivarsi per seguire l’esempio maremmano, e rilanciare davvero la nostra fascia appenninica (laggiù, lo abbiamo visto, ha funzionato, senza che ci si trovasse in presenza di un Parco Nazionale di fama europea: perché non dovrebbe funzionare da noi, che nulla abbiamo, ambientalmente, di meno?), oppure evitare lo sforzo (fisico e psicologico) che comporta il promuovere questo cambiamento, e lasciare che le cose vadano come vanno (cioè alla bell’e meglio). Se si decide di andare avanti così (sostanzialmente, al ribasso), però, non ci si lamenti poi se “l’unica soluzione” che si prospetta per “garantire un futuro” (sic) alle valli appenniniche piemontesi appare la realizzazione di un qualche megaimpianto eolico che, davvero (sono purtroppo i meccanismi fatali del libero mercato: nessun imprenditore investe risorse proprie a casa tua per lasciare a te gli utili…), rischia di sfruttare a proprio esclusivo vantaggio una risorsa locale per lasciare in loco solo le briciole. E più nessuna attrattiva turistico-ambientale. Sarebbe, insomma, il baratto di Esaù, che cedette la primogenitura per un piatto di lenticchie. Visto che le scelte programmatiche possono ancora essere compiute, bisognerebbe pensarci seriamente.


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