Abbiamo ricevuto e con piacere vi presentiamo la Tesi di Laurea di di Andrea Paolucci, che si è laureato alla LUISS Guido Carli con un interessante lavoro che, partendo dall’impatto dei diritti televisivi sul calcio, percorre a tutto campo il problemi della nostra Serie A. Andrea ha predisposto una sintesi del lavoro; il documento completo è disponibile in fondo al post.
ll mondo del calcio è in continua evoluzione. Pieno di problemi e pieno di speranze per un futuro migliore. Prima che uno studente dello sport, sono un appassionato o come si suol dire in ambito calcistico: un tifoso.
Proprio questo sentimento di preoccupazione e la presa di coscienza dei problemi del nostro sistema calcio mi hanno spinto ad analizzare le diverse cause. Innanzi tutto per cercare di capire da dove deriva questa perdita importante di competitività, per poi cercare di dare alcune risposte e presentare alcuni modelli funzionanti in altre realtà.
Come andremo a vedere, in Italia il ruolo ricoperto dalle Tv nel business calcio è preponderante. Sempre di più ci convinciamo come la Serie A sia completamente controllata dalla volontà delle piattaforme digitali e dalle loro contrattazioni.
In tutto questo viene da pensare che le Tv debbano catalizzare l’interesse su ogni partita, perciò conviene distribuirle singolarmente in più giorni ed in più orari. Un illazione che trova conferma, pensando che per i club del nostro paese gli introiti dalla cessione dei diritti Tv pesano per più del sessanta per centro sui fatturati. Questo rende le nostre squadre tra le più povere (visto che non si diversificano i ricavi), tra le meno attraenti per investimenti esteri e quindi tra le meno competitive a livello europeo e quindi mondiale. Dal 2010, ultimo anno per la vittoria di un italiana in Champions League, nessuna squadra italiana ha raggiunto le semifinali della stessa competizione; abbiamo il campionato col il minimo livello di competitive balance (sicuramente non migliorerà pensando al vantaggio competitivo raggiunto dalla Juventus attraverso il suo stadio di proprietà); i nostri talenti sono costantemente in fuga verso i ricchissimi club europei; abbiamo un calcio lento, prevedibile e di bassissimo livello.
Riferendoci al problema television, sin dai primi anni ’90 la questione diritti tv ha investito il mondo del calcio con grande impeto trovando gli addetti ai lavori impreparati a far fronte alla crescente necessità di calcio pay per view.
Forse il primo accostamento tra pallone e televisioni si è verificato nel momento in cui Silvio Berlusconi nel 1986, allora a capo del gruppo Fininvest acquistò l’ A.C. Milan. Sino ad arrivare all’avvento di Tele+ nel 1993, il primo operatore a permettere la visione delle partite di campionato a pagamento servendosi di un decoder digitale e di una parabola; con l’ingresso di Stream poi nel 1999 si è scatenata l’asta al rialzo per aggiudicarsi i diritti tv, gonfiando i ricavi dei club sotto questa voce.
Ovviamente abbiamo visto una sproporzione di tali ricavi a favore dei Club più famosi (riguardo alla percentuale di tifosi), più vincenti e quindi già più ricchi rispetto alle squadre cosiddette di provincia.
Nel 2003 Murdoch acquista Tele+ e porta in Italia la piattaforma Sky che riunisce l’intero campionato di calcio sotto un unico decoder e abbonamento e nel 2005 per non lasciare ad essa il monopolio della trasmissione degli eventi sportivi si inserì nel mercato del digitale terrestre (grande influenza ebbe l’allora Governo Berlusconi), Mediaset attraverso Mediaset Premium e La7 cartapiù. Mentre i diritti in chiaro passarono per la prima volta dalla storica RAI a Mediaset appunto, in esclusiva fino alle 22:30 della domenica.
L’Italia in questo momento è agli ultimi posti per quanto riguarda l’equa distribuzione dei ricavi derivanti dalla cessione dei diritti. In Europa i club Italiani sono gli unici che basano più del 60% dei loro profitti da suddetto business. É chiaro che la situazione avrebbe portato al collasso data la non gestibilità della situazione.
A partorire l’ultima riforma importante sul tema fu nel 2006 il governo stesso sotto l’azione del Ministro per le Politiche Giovanili e delle Attività Sportive, Giovanna Melandri ed il ministro delle telecomunicazioni, Paolo Gentiloni attraverso una legge delega atta a revisionare l’intera normativa sulla titolarità e la cessione dei diritti tv, sia per quanto riguarda i campionati italiani ed europei professionistici, sia per tutti gli eventi sportivi trasmessi da radio e TV sul territorio nazionale, infatti finalmente si esce dalla concezione totalmente economica del calcio ma anche dello sport in generale, ridando quel carattere sociale tipico dei tempi passati.
Ecco che si ritorna alla cessione collettiva dei diritti tv, questo innanzi tutto per la competitive balance del campionato italiano, poi per equilibrare anche la distribuzione delle risorse tra i vari club, infine per garantire una concorrenza più trasparente per l’assegnazione dei diritti da parte delle varie piattaforme che avrebbe portato ad un mercato sicuramente più efficiente.
È finalmente il 9 gennaio 2008 quando viene promulgato dal Governo il decreto legislativo sopra citato del 2007 numero 106. Si passa come anzidetto a questo nuovo sistema, dove titolari dei diritti televisivi per gli eventi sportivi diventano sia la Lega Calcio, sia i singoli club che prendono parte al torneo.
Dopo aver affrontato una parte prettamente normativa e disciplinare relativa ai diritti tv e come sono organizzati nei vari paesi europei, c’è la necessità di affrontare altri temi importanti che ruotano intorno al mondo del calcio e che sicuramente hanno influito direttamente sulla competitività dello stesso.
Innanzi tutto, la famosa sentenza Bosman, Così è chiamata la decisione presa dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea di Lussemburgo del 1995 in merito al trasferimento dei calciatori professionisti cittadini dell’UE in qualsiasi società con cui essi concludano un accordo alla scadenza del loro contratto precedente. La sentenza consentì a qualsiasi calciatore di avere la facoltà di stipulare un precontratto a titolo gratuito con un altra società, qualora il contratto in essere in quel momento abbia durata residua minore o uguale a sei mesi. La conseguenza principale fu sicuramente il prolungamento dei contratti dei calciatori a cifre sempre maggiori (le società erano da quel momento minacciate dalla forza contrattuale del calciatore che non rinnovando alle cifre richieste era libero di accordarsi con qualsiasi altra società portando a scadenza il suo attuale contratto), i cartellini degli stessi gonfiati ma soprattutto per gli ultimi romantici del mondo del calcio, la fine del calcio come era concepito prima.
Altro punto fondamentale dell’analisi riguarda la Licenza Uefa ed il Fair Play Finanziario.
Per l’iscrizione alle competizioni internazionali a partire dalla stagione calcistica 2003-2004, è necessario il conseguimento di un sistema articolati di licenze, la cosiddetta Licenza UEFA. A tal proposito l’ente, pubblica ogni anno un Manuale che detta ai club i principi e i parametri da rispettare per arrivare ad assicurarsi la licenza per l’anno in corso; la procedura è rigida e consta di molteplici criteri divisi in aree di appartenenza tra cui segnaliamo i criteri prettamente sportivi, quelli organizzativo-legali, i criteri infrastrutturali ed infine ma non di ultima importanza, i criteri economico-finanziari. Per quanto concerne i requisiti infrastrutturali, condicio sine qua non per l’acquisizione della Licenza è il disporre di uno stadio a norma e certificato con impianti di allenamento all’interno, tale struttura non è necessario si di proprietà del club.
Nasce poi nel settembre 2009 sotto la spinta del Comitato Esecutivo dell’UEFA, il progetto chiamato appunto Fair Play Finanziario, concretamente arrivato nel maggio 2010 con l’edizione dell’UEFA Club e diviene un requisito fondamentale per l’acquisizione della Licenza UEFA. Essenzialmente l’obiettivo dell’organizzazione era innanzi tutto quello di riparare alle ingenti perdite capitalizzate dai club connesse ai debiti sempre più alti relative ai costi degli ingaggi dei campioni; inoltre si tratta di sviluppare la trasparenza e la serietà del sistema calcio andando a modificare le strategie economiche delle squadre, in quanto come abbiamo notato nel precedente capitolo la disparità sul campo nasce inevitabilmente da una disparità finanziaria ed in questo modello non c’è spazio per le più piccole realtà, che rimarranno sempre più ai margini del calcio che conta.
Riprendendo il discorso sulla trasformazione del calcio da sport ed evento sociale, a business e spettacolo, dalle analisi sul fair-play finanziario appena fatte abbiamo capito quindi che ora più che mai per le società è importantissimo portare quanta più gente allo stadio e fidelizzarli al brand. E proprio la questione stadio è il punto dolente per la situazione italiana. Infatti i ricavi da gara hanno un incidenza molto bassa sul fatturato totale delle società nostrane e questo perchè gli stadi sono di proprietà dei comuni ed i club non influiscono sul loro utilizzo (ricordiamo che sono utilizzati per eventi, concerti ecc).
La differenza diventa sostanziale quando compariamo il nostro sistema a quello di altri paesi europei, su tutti il Regno Unito, da sempre esempio di anticipazione dei tempi.
In Inghilterra le squadre possiedono il proprio stadio e sono una fonte di ricavo con più incidenza ne loro bilanci. Attraverso i biglietti, i bar, i ristoranti, gli skybox ma soprattutto durante la settimana con i cinema, lo store dedicato al club, il museo, insomma le attività commerciali connesse sono numerose e questo fornisce un flusso di cassa notevole per le inglesi fidelizzando il tifoso che si sente sempre più a casa nel proprio stadio. Soprattutto la diversificazione degli introiti permette alle squadre d’oltremanica di non dipendere dai diritti Tv (in Inghilterra e Germania le entrate dai diritti televisivi pesano sul totale per il ventitré per cento, in Spagna per il trentatré per cento invece).
I nostri stadi andrebbero ridotti in numero di posti di circa il trenta o il quaranta per cento a seconda della città e tenendo ben presente alcuni parametri da cui non si può prescindere considerando l’attrazione verso l’impianto: sicuramente dobbiamo considerare la squadra in questione, la sua storia, il prestigio ecc; la visibilità della partita allo stadio; la capienza come detto; il livello di usura dello stesso; la grandezza della città che lo ospita. Bisogna in realtà considerare che episodi di violenza, prezzi e servizi offerti, il fatto che ormai tutto il campionato è comodamente visionabile da casa con le pay-tv, gli scandali del pallone (“calcioscommesse”, “Calciopoli”) e difficoltà nel reperire il biglietto dovuto a politiche totalmente scoraggianti, non hanno di certo aiutato l’affluenza media negli stadi di anno in anno.
Dal 2011 la Juventus è l’unica compagine italiana di Serie A a possedere il proprio stadio e quindi ad usufruire di tutti i benefici connessi. Sorto dalle ceneri del vecchio Stadio Delle Alpi il nuovo Juventus Stadium o abbreviato a J Stadium, conta esattamente quarantuno mila posti a sedere con sessantaquattro SkyBox. Negozi, ventuno bar, otto ristoranti, il museo dedicato e un importantissimo parcheggio di quattro mila posti completano la favolosa opera. Anch’esso si situa tra gli stadi multifunzionali, con fini di diversificazione dei ricavi ed andando attrarre tifosi ed appassionati durante tutto l’arco della settimana. Il finanziamento è arrivato dalla società Sportfive, che si è anche aggiudicata il naming right con un contratto da settantacinque milioni di euro fino al 2023.
L’investimento non è stato indifferente: l’impianto è costato in totale centocinquanta milioni di euro, ma i ricavi sono maggiorati di circa nove milioni di euro, sembra una cifra di poco conto, ma dobbiamo calcolare che esattamente il 56,3% della crescita degli introiti in bilancio provengono dallo J Stadium, pari a 23,5 milioni di Euro. Inoltre i ricavi medi da gara sono raddoppiati e riguardo alla situazione finanziaria lo J Stadium, produce circa ventitré milioni di euro di Free Cash Flow che consentono di avere a fine anno 16,5 milioni di euro di Excess cash Flow pronti ad essere utilizzati sul mercato. Un enormità in confronto alle altre realtà italiane.
Parlando di stadio, non bisogna dimenticarsi assolutamente la figura dei tifosi. L’analisi fatta fino ad ora ha toccato punti di giurisprudenza, punti burocratici e normative messe in atto dalle più alte cariche europee in merito di riscossa del gioco calcio.
Non scordiamo però, che prima di tutto questo sport è un attività ludica, di interesse sociale, permeato nelle masse nel tempo; interessa prima di tutto il popolo. Quella marea di persone che vive giorno per giorno l’amore per la propria città, per i propri colori e che tramuto tutto questo in passione per la squadra di appartenenza.
Dopo aver visto un susseguirsi di fatti ma anche di atti normativi che hanno modificato profondamente la storia di questo sport alcune volte trasformandolo, bisogna analizzare il principio cardine di ogni processo che ultimamente le istituzioni calcistiche stanno applicando: la competitive balance.
Partiamo dal presupposto oggettivo, che l’incertezza del risultato è basilare per una buona riuscita di un evento sportivo. Ecco la competitive balance è proprio l’indicatore che misura l’equità di una competizione ed a cui tutti fanno riferimento quando si tratta di sanare la crisi del calcio.É però indispensabile lo studio della CB perchè permette di delineare la domanda di sport da parte del pubblico scindendo come ha ben fatto Szymanski, i tifosi “committed” dai tifosi “uncommitted”. I primi sono i tifosi per antonomasia,quelli di cui abbiamo parlato precedentemente, i secondi gli appassionati dello sport e senza un particolare trasporto.
Il tifoso “committed” in realtà poco bada all’incertezza del campionato, quanto più se la sua squadra riesce ad arrivare in una posizione importante a fine anno, questo rende la domanda anelastica e la teoria di una maggiore CB, decade di rilievo. I tifosi “uncommitted” invece sono più interessati alla bellezza della partita o dell’intero campionato, perciò fanno molta attenzione all’incertezza del campionato.
Uno squilibrio continuato della lega porterebbe ad una diminuzione di interesse del pubblico con relativa perdita economica. Perciò più cresce il grado di competizione, più cresce l’incertezza del risultato finale e quindi maggiore è la competitive balance: direttamente proporzionale poi alla situazione finanziaria: a fare la differenza nel calcio sono i giocatori di talento, che per essere acquistati necessitano di debite cifre in denaro, perciò più il campionato è equilibrato e più le forze economiche delle società che ne prendono parte sono altrettanto equilibrate.
Bisogna chiedersi quindi se c’è la possibilità di intervenire verso alcuni parametri distorsivi della competitive balance, per migliorare quindi l’equità dei campionati europei. La strada sembrerebbe quella dove i club più ricchi donino parte delle loro disponibilità, alle squadre meno ricche, o meglio aiutino in termini economici e di spartizione di parte degli introiti con gli ultimi della classe.
Chiaramente gli esempi più diretti di soluzioni alternative provengono dallo stato dove è sorta la sport economics e dove si è sviluppata esponenzialmente, gli Stati Uniti; dovremo capire, se in fondo questo modello è esportabile alle realtà europee.
Ci serve specificare che nei campionati americani si giocano molti più incontri rispetto ai nostri calcistici e questo dovuto in parte al fatto che le squadre si incontrano più di due volte a stagione ma soprattutto alla presenza dei play-off a fine anno che decretano il vincitore definitivo, sia in ultimo al fatto che la durata del campionato è molto più concentrata in termini di tempo rispetto al contesto del vecchio continente. Inoltre non esistono competizioni internazionali come la nostra Europa League o Champions League ma soltanto la stagione completa della lega di appartenenza. I metodi più efficaci e che agiscono direttamente sull’equilibrio competitivo dei campionati risultano essere appunto quelli mutuati dalle organizzazioni USA: il Revenue Sharing, la distribuzione dei ricavi provenienti dalla cessione dei diritti Tv e dei biglietti per il match; il Salary Cap, il limite massimo in termini di denaro che un team può spendere per l’acquisizione di talento ed infine un meccanismo tipico del Basket NBA che è quello del draft, attraverso il quale da la possibilità prima dell’inizio della stagione, alle squadre arrivate ultime di scegliere per prima tra una vasta selezioni di grandissimi talenti che si affacciano al professionismo (principalmente si tratta dei giocatori che arrivano dalle Università americane), o provenienti dall’estero.
l sistema di riferimento come detto rimane comunque quello degli Stati Uniti: la NBA non sembra godere di un elevata competitività, infatti solo sedici dei trenta team hanno raggiunto la top four negli ultimi dieci anni soprattutto se consideriamo la MLB e la NFL con un ricambio molto più elevato. La spiegazione di questo sarebbe da attribuire innanzi tutto al fatto che il Basket americano è avulso da colpi di fortuna, infatti i playoff si giocano alla meglio dei sette match disputati in un tempo molto ristretto dove il team più forte alla lunga esce sempre fuori; inoltre è uno sport con pochi giocatori in campo che decidono l’esito delle gare, quindi il talento ha un incidenza maggiore sul risultato, in sostanza, un grande giocatore da solo può decidere le partite e fa molto la differenza; ma l’eccellenza americana sicuramente mostra tutti i suoi vantaggi quando si parla degli impianti sportivi della NFL. Innanzi tutto ricordiamo che la lega di football distribuisce in maniera omogenea i proventi dalla cessione dei diritti Tv, i ricavi dalla vendita dei biglietti dei match appartengono per il sessanta per cento alla squadra di casa e per il quaranta per cento alla squadra ospite.
Fin qui si è parlato dei problemi del calcio, andando a toccare tutti gli eventi più importanti che hanno portato alla sua trasformazione. Si è visto che come ad oggi questo gioco muova cifre esorbitanti ma influenza anche molti portatori di interesse; si è visto però, anche come ci si trovi di fronte ad una profonda crisi.
Gli stadi si stanno svuotando ed anche l’interesse verso il calcio in Tv è in calo; sempre meno persone spendono per il proprio Club e le cause di tutto ciò sono state ben esplicate nei paragrafi precedenti. La situazione italiana è la peggiore, i diritti Tv coprono per più del 50% gli introiti dei club, totalmente dipendenti da questa fonte di ricavo; inoltre la competitive balance del nostro campionato ne sta risentendo moltissimo. Quindi è importante che si ponga l’attenzione su nuovi metodi di approvvigionamento per tutte le società e ricordiamoci soprattutto che il denaro non è il fine ultimo delle società calcistiche, ma un mezzo per arrivare al suo fine: le vittorie.
Pensiamo a come lo Stadio di proprietà permetta ai nostri club di Serie A di tornare a competere con i colossi europei nelle varie Coppe, creerebbe posti di lavoro, circolazione di denaro e sicuramente maggiore interesse del popolo laddove si registra un calo della partecipazione del tifoso. Uno stadio aperto tutti i giorni con negozi, cinema, ristoranti a tema, musei del Club, si responsabilizzerebbe lo spettatore e si gonfierebbero i fatturati.
Nel calcio, l’aspetto economico e quello aggregativo/sociale, non sono affatto distinguibili, non sono mai separabili ma devono imparare a convivere inesorabilmente. Proprio per questo, dopo il Calcio Scommesse, dopo Calciopoli, dopo il Doping, dopo aver visto calciatori viziati che guadagnano un enormità e che sono solo esempi negativi per la società, il calcio può e deve porsi su un altro piano: vista la grande capacità di catalizzare l’attenzione, deve essere un esempio per promuovere magari la lotta al razzismo, la salvaguardia dell’ambiente (in questo la costruzione di nuovi stadi sostenibili potrebbe essere d’aiuto), la promozione della salute e del benessere.
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