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Comunicare la povertà oltre il muro dell’ipocrisia

Creato il 27 gennaio 2012 da Lalternativa

“La notiziabilità del sociale”. Sì, lo ricordo bene. Si chiamava proprio così un intero capitoletto di un libricino comprato qualche anno fa, che aveva l’ambizione di spiegare a giovani aspiranti giornalisti come funziona la “comunicazione sociale”, come si tutelano e allo stesso tempo si fanno diventare notizia le storie dei “soggetti deboli”, minori, disabili, malati, senza fissa dimora.

L’ho letto e riletto, mi piaceva l’idea che per occuparsi di certe tematiche, oltre a tirar fuori tutta la sensibilità e lo speciale “occhio” di cui solo madre natura ti può far dono, ci si potesse formare, aggiornare, si potesse studiare. Poche regole, ma importanti.

Due o tre anni in giro per le redazioni avevano già smontato pezzo dopo pezzo questa ingenua convinzione. Ma non c’è mai fine al peggio.

Il caso dei coniugi De Salvo mi ha imprigionata nella logica dello “sbatti il mostro in prima pagina”, e parlane finché alla gente resta l’ultimo sospiro di pietà.

E via alla corsa nelle mense, nei dormitori, alla stazione di notte, alla tendopoli di via Maratona, per scoprire e ripetere (per un’intera settimana!), che a Bari ci sono 400 “poveri assoluti”, ma decine di migliaia di “poveri relativi”, che reclamano dignità e la possibilità di progettare un futuro fuori dagli stenti e dall’assistenzialismo da “un pasto caldo e un letto” che caratterizza il nostro sistema di welfare.

E sentire, in questa settimana, l’Assessore (niente nomi) implorare i colleghi, gli stessi che corrono alle mense e ai dormitori, di smetterla di parlare della tragedia De Salvo, “che quello non è che era povero, è che era psicolabile”. E sentire i colleghi ridacchiare, salvo poi fare la voce tremolante mentre raccontano come si vive quando si elemosina un pasto caldo alla parrocchia, possibilmente lontano da casa, “che in famiglia non lo sanno”. Ed essere, volente o nolente, tu che quel libricino l’avevi divorato, parte del sistema (anche se “l’occhio” non te lo cambierà mai nessuno).

E poi, in quella stessa settimana, sentire il presidente della cooperativa Caps ammettere sconsolato che a Bari, e non solo, mancano risposte adeguate ai nuovi volti della povertà, ancor prima mancano gli strumenti per leggere e capire disagi che si nascondono, che hanno il pudore di chiedere aiuto.

E ricordare che in città, anche se nessuno ne parla, almeno in questi termini, esistono quattro edifici occupati che sperimentano l’autorganizzazione per superare l’emergenza abitativa, che trasformano strutture abbandonate al degrado (che vergogna!) in case più o meno accoglienti. L’ultima, in ordine cronologico, e’ una villetta, l’ex presidenza di un liceo, oggi ripulita e riscaldata, abitata come fosse un collegio universitario, con tanto di turni per le pulizie affissi nel corridoio.

“Un modo per sfuggire alle carceri a bassa intensità come i dormitori, in cui vivi aspettando di morire, senza alcuna progettualità”, ti spiega uno degli occupanti. Un laboratorio politico, 17 persone insieme, uno spaccato della più varia umanità, che ha portato sotto lo stesso tetto uno scrittore senegalese, un dottorando senza borsa, un eritreo disoccupato, un badante italiano, una coppia nata per strada, che qui sperimenta la convivenza in una “quasi-casa-vera”.

E senti l’esigenza di scrivere, anche se poi temi che è solo vapore sparato fuori dalla valvola di sicurezza che regola la pressione del sistema.

Silvia Dipinto


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