Di Daria Siani In fondo esistono molti modi di rivelarsi: chi è dotato di talento lo fa attraverso le Poesia, io mi esprimo come so, più semplicemente.
Quindi rompo il silenzio che mi ero imposta per non appesantire le persone alle quali sono legata, non mi sento più di nascondermi, anche se rimango consapevole che non si può abusare dell’affetto di chi ci è caro oltre un certo limite perché credo che non sia etico continuare a coinvolgerli in “una valle di lacrime”.
Nella vita di tutti i giorni le persone scappano di fronte al dolore e come biasimarle, se io stessa ho “abbandonato” a mia volta amiche ed amici talmente intrisi di sofferenza per il timore di esserne “contagiata”.
Non appena cominci a parlare con gli altri e ti raccontano di loro, si scopre una realtà inimmaginabile all’apparenza, eventi talmente tragici da domandarsi: ma come hanno fatto a sopravvivere?
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Dicevo… rompo il silenzio…
La stanza di mia madre a fine aprile era più attrezzata di un ospedale, finché è arrivata la disfagia, trattabile solo in una struttura preposta ad ospitare i malati terminali.
Mia madre è morta di fame e di sete, per mia scelta comunque, anche se i medici avevano indicato questa orribile strada per non imporle altre sofferenze, quali l’alimentazione con il sondino, tentata ma impraticabile.
Insomma, la strada del non accanimento terapeutico.
L’hanno chiamata “morte dolce” ma di dolce non aveva niente.
Flebo di acqua e zucchero per non disidratarla e “nutrirla” finché il corpo non si fosse consumato da solo.
Mi hanno giurato e promesso che non avrebbe sofferto…
Ma solo io guardandola, nel suo silenzio, capivo la sua paura della morte.
Mi guardava con quegli occhi improvvisamente diventati enormi e vi leggevo tutto il terrore della consapevolezza che la vita l’avrebbe abbandonata.
Un mese e mezzo di agonia, sua e mia.
Solo io sapevo come darle da bere quelle poche gocce d’acqua, senza che finissero nella trachea.
Solo io sapevo fare ogni cosa perché la morte non arrivasse in anticipo.
Ma non avevo l’intenzione di trattenerla per egoismo, volevo solo che lei sapesse che io ci sarei stata sempre, ma sempre non ci sono stata perché non ne ho avuto la forza.
Magari la morte avesse avuto pietà e l’avesse colta nel sonno.
Invece no.
Dal ricovero alla fine, appena, un eterno mese e mezzo e poi quella telefonata alle 2 di notte.
Quella sera mi ero trattenuta più a lungo, non avrei voluto andare via, ma ero sfinita, e mentre guardavo la televisione pensavo: dovrei essere là.
Lei ha aspettato che arrivassi.
Soltanto tre brevi respiri e poi è finita.
La tenevo abbracciata e la sentivo ancora tiepida. Il battito era cessato, ma le mani sembravano quelle di una persona addormentata, come l’avevo osservata tante volte, temendo che se ne fosse andata, e invece regolarmente si risvegliava ed io mi convincevo sempre di più che fosse un’immortale.
Se fosse dipeso da me non me ne sarei staccata.
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Ma questo è stato solo l’epilogo perché quello che mi ha devastata è stato vivere e assistere impotente alla malattia della persona che: “La morte della madre (…) è l’anticipo della tua morte. Perché è la morte della creatura che ti ha concepito, portato dentro il ventre, regalato la vita. E la tua carne è la sua carne, il tuo sangue è il suo sangue, il tuo corpo è un’estensione del suo corpo: nell’attimo in cui muore, muore fisicamente una parte di te o il principio di te, né serve che il cordone ombelicale sia stato tagliato per separarvi.” Oriana Fallaci.
Come si possono spiegare con le parole le emozioni, le sensazioni, quel costante sentimento di sconfitta nell’assistere alla decomposizione indegna di quel corpo e di quell’anima, di cui conoscevi ogni sfumatura, ogni singolo atomo.
Come si può rassegnarsi alla perdita di una madre che diventava giorno dopo giorno sempre più simile ad un cencio, inconsapevole a volte ma, molto peggio, a tratti maledettamente lucida e disperata.
Dopo, essere rimasta sola, ma con una figlia che per mesi mi vedeva o a letto o grondante di lacrime e con un senso di colpa nei suoi confronti insufficiente a smuovermi ma che mi squarciava la mente ed il cuore, è stata la mia condanna.
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Ormai è passato quasi un anno ma, solo qualche giorno fa, dopo una crisi tanto imprevista quanto sconvolgente, ho capito che in tutto questo tempo io sono rimasta inchiodata là, anche se facevo finta di vivere.
Daria era rimasta su quel letto dove lei è spirata tra le mie braccia e dal quale rifiutavo di staccarmi, finché braccia pietose me lo hanno imposto perché il suo corpo rischiava di raffreddarsi troppo, richiedendo in seguito interventi traumatici per essere degnamente ricomposto
E’ stata un’inaspettata presa di coscienza.
Il lungo percorso psicanalitico intrapreso una vita fa serve a darti la consapevolezza. E’ una grande conquista ma non basta perché l’essenziale, il fulcro di questo tipo di strada scelta, è la capacità di riuscire ad accettare l’inaccettabile.
Quindi, qualche giorno fa, ho temuto per il mio equilibrio mentale perché, non so più se sia un bene od un male, sono in possesso di tutti gli strumenti per monitorarlo, per valutarlo.
Ho vissuto una vita lunga, ho lottato e lottato, domandandomi ogni volta: quando crollerò?
Perché prima o poi si crolla, è inevitabile. Quanto si può affrontare in una unica vita? Nella stessa unica vita?
Non è vero che si tocca il fondo, si può andare molto più sotto.
Marzo 2012