Diceva John Keats che “Se la poesia non nasce con la stessa naturalezza delle foglie sugli alberi, è meglio che non nasca neppure”. Aveva forse previsto qualcosa, il giovane poeta inglese a cui i critici del tempo fecero il torto di non riconoscere la sua grandezza? Può essere che, con due secoli d’anticipo, Keats fosse riuscito a prefigurarsi un futuro letterario ed artistico sempre più inflazionato come quello odierno? Oppure, molto più semplicemente, anche ai primi anni dell’Ottocento, con le dovute differenze imputabili all’accesso più ridotto a certe opportunità, è possibile che imperasse già parecchia confusione rispetto al “fare poesia”?
Attualmente, pubblicare un libro o semplicemente esprimersi attraverso la parola e sottoporla all’attenzione degli altri (coadiuvati dalla potenza della rete o dal self-publishing, per dirne qualcuna) è diventato certamente più agevole. L’accesso immediato ad ogni tipo di comunicazione ha trasformato l’opportunità in una sorta di ossessione egoistica e per questo motivo, in un groviglio volgare di parole, tutto rischia di apparire disgraziatamente equiparato; per non cadere nell’imbroglio dunque, è necessario armarsi di molte più difese. E qual è la difesa più infallibile (e più dolente) se non la cultura? Intendo la cultura vera, quella necessaria, refrattaria agli orpelli e agli sfoggi tout court, quella inscindibile dalla vita?
Scrivere è un mestiere e a testimoniarlo è una delle poche vere voci che la poesia italiana contemporanea possa vantare. Federica D’Amato, poetessa, redattrice per la casa editrice Ianieri e giornalista culturale per il quotidiano abruzzese Il Centro, si racconta oggi sulle pagine de “L’Undici”.
1 – Vivere e scrivere? E’ possibile scindere le due cose per te?
Ieri rileggevo Vittorio Sereni, ad un certo punto mi sono imbattuta in una nota biografica in cui una sua alunna testimoniava la grandezza del professore e poeta lombardo; diceva, in sintesi, che in Sereni l’amore per la letteratura ERA l’amore per la giovinezza, per i giovani, l’inevitabile desiderio di aiutarli nel percorso della vita. Ecco, allora io ho pensato che non potrebbe essere altrimenti, che non c’è un amore scindibile dall’altro, che è impossibile vivere male e poi scrivere bene – “bene” nel senso di una scrittura eticamente condotta, umana -, mi sono detta che è impossibile essere degli scrittori senza restare giovani per sempre.
2 – Ogni vero scrittore ha i suoi autori. Quali sono i tuoi?
Miei in un senso di dolorosa possessività considero Cesare Pavese, Amelia Rosselli, Torquato Tasso, Vittorio Sereni, Milo De Angelis. Poi vi sono le seduzioni, i motivi di studio, brevi amori dal fondamento eterno, come Catullo, Leopardi, Rainer Maria Rilke, Eugenio Montale, Anna Achmatova, Paul Celan, Friedrich Hölderlin, Piero Bigongiari, Mario Luzi, e tanti, tanti altri, come solo i brevi amori possono essere: una moltitudine che fa struttura.
3 – “La Dolorosa” e “Poesie a Comitò”, le tue due prime sillogi poetiche. Come sono nate? Rileggendole ora, cosa scorgi?
Sono nate naturalmente, come tutte gli eventi reali escono fuori dal bozzolo della potenza. Li guardo ovviamente con odio, tenerezza, ma anche rispetto perché veicolano fasi del mio cammino mentale che sono andate perdute.
4 – Hai curato per la Noubs il “Libro dell’amico e dell’amato”, di Raimond Llull, una delle opere cardine della letteratura catalana, risalente alla fine del 1200. Quali sono le difficoltà e i privilegi di tradurre un testo simile?
Le difficoltà tantissime, soprattutto imposte dall’accademia, luogo di serpi pronte o a fregarti il lavoro o a sminuirlo se vuoi restare indipendente. Il privilegio non è raccontabile: quello è un libro che va letto e basta, da quel momento il privilegio diverrà patrimonio inamovibile di ogni lettore. E’ un libro bellissimo.
5 – “Avere trent’anni” è la tua terza raccolta poetica, edita da Ianieri nel 2013. Si tratta di una sorta di steccato oltre il quale ti incammini, lasciandoti alle spalle un periodo preciso della tua esistenza. Ti va di parlarcene?
Non è propriamente così, sebbene sia anche così. E’ un poemetto spezzato sul principio dell’infanzia, favoloso non-tempo dell’esistenza d’ognuno che inizia ad appartenerci proprio quando irrimediabilmente il tempo ci conduce al varco del suo esaurimento. Vedi, Valentina, vi sono questioni – sostanze le ha chiamate Sereni – di cui entriamo in possesso solo nel momento in cui esse vanno perdute: è da quel momento che si è in grado di agirle, nella vita di tutti i giorni, di dargli un senso, con grande dolore certo, ma anche con l’autentica accettazione del proprio destino. Insomma, il problema è che a trent’anni inizi a sentire nel sangue che, prima o poi, morirai anche tu.
6 – Di quali libri non si dovrebbe/potrebbe fare a meno nella vita?
Di tanti, sicuramente di tutti quei libri che sono il frutto di un incontro che ci ha cambiato la vita. Penso a “Una questione privata” di Beppe Fenoglio, a “Gli imperdonabili” di Cristina Campo, a “Dialoghi di Leucò” di Cesare Pavese, ma anche all’Orazio lirico di Pasquali, a “Vere presenze” di George Steiner e al monumentale, amatissimo, “Letteratura europea e Medio Evo latino” di Curtius.
7 – Su “Il mestiere di vivere” il tuo amato Cesare Pavese afferma che far poesie è come far l’amore: non si saprà mai se la propria gioia è condivisa. Credi anche tu che sia così?
Certo, ma qui Pavese scriveva certe cose perché preda di quel “vizio assurdo” che in definitiva non è altro che la vita. Ma fare l’amore è un fiore raro, dentro la vita, come condividere una gioia impossibile. Non so, credo di essere più viziata dello stesso Pavese!
8 – Per te, cosa cerca un lettore contemporaneo in un’opera? E in particolare, cosa cerca oggi un lettore di poesia?
Consolazione.
9 – Al giorno d’oggi, nel groviglio della comunicazione ossessiva e tragicamente equiparata, bisognerebbe rieducare il lettore? Lettori si diventa?
Sì, credo di sì, è attraverso l’esercizio costante che si diventa quel che si esercita.
10 – Poetessa, traduttrice ma anche giornalista culturale. Che ruolo ha attualmente il cronista della cosiddetta “terza pagina”?
Dipende. Io ho molta libertà di scelta e di espressione, di questo debbo ringraziare i miei “capi”, ma a livelli più alti e complessi il giornalismo culturale sta diventando un immondezzaio, un contenitore di malcelate marchette, un diffusore di una lingua tremenda, caina.
11 – Quali sono i tuoi progetti futuri?
Diventare povera e contadina-marinaio, gli stessi che ho da quando sono bambina; ultimamente se n’è aggiunto uno che però li sbaraglia tutti: aprire un bar. Quest’ultimo è il modo migliore di dare consolazione.
Grazie Federica, dell’intervista e delle tue poesie.
E ogni morte mi stupiva
perché poteva essere la mia
e ogni addio era peggio di
quel nuotare nel sale
rifiuto che ti strappa la pelle
se non lo copri con un po’ di male.
E poi c’era questo dover crescere
a tutti i costi diventare
imparare a stare soli
ma io volevo dire
non tutti sanno
non tutti possono
qualcuno va tenuto in mano
fino alla fine
meglio va tenuto angelo
dannato creatura triste
qualcuno va tenuto
vicino e curato meglio
di quanto vuoi curare te
o solo una parola gentile
coprilo con un po’ di bene.