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Il primo ministro russo Medvedev ha ribadito a tal proposito via Facebook, che secondo la Russia il presidente in carica a Kiev è Yanucovich, nonostante "la sua autorità sia praticamente insignificante" - che è tutto un dire, soprattutto spiega la fiducia che Mosca riserva (e riservava) sull'ormai deposto Capo di Stato, (se n'era già parlato).
Putin si fida solo di sé stesso, e ha deciso di prendere l'iniziativa prima che fosse troppo tardi. Tardi per cosa? Beh, gli interessi russi in Ucraina sono soltanto in parte economici - sì, vero le pipelines, sì, vero un po' di commercio. Dietro c'è un mondo, quello Occidentale, della Nato e dell'Europa, che Putin vuole tenere a debita distanza da Mosca: in questo il cuscinetto ucraino poteva diventare un puntaspilli girato dalla parte sbagliata, se solo le proteste (e le repressioni) avessero preso dimensioni ancora più importanti. Il rischio di una primavera ucraina - che avrebbe potuto estendersi dai Balcani al Caucaso - era l'aspetto cogente della questione.
La provocazione in Crimea, come fu quella in Ossetia, serve a bloccare l'escalation: non conta la sicurezza dei russi e delle basi militari, la penisola è già di fatto Russia a tutti gli effetti. Tutto va combattuti anche a colpi di propaganda: passando dai gay, ai neonazisti (che di certo non sono mancati), l'ultima carta in ordine di tempo è stata giocata sui 130mila profughi in fuga versa la Russia di cui nessuno ha visto nemmeno un traccia (le immagini che girano, raccontano anzi un'insolita tranquillità alle frontiere)
Il problema è che, proprio attingendo a quel passato nemmeno troppo prossimo della Georgia, Putin si è sentito legittimato ad agire: davanti, opposta, una politica internazionale fatta di moniti, di voci grosse e di grancasse. Quella di Obama su tutte, che oggi in un editoriale il Washington Post (non accusabile di essere contro l'Amministrazione a prescindere), non ha esitato a definire «based on fantasy».
Senza inserire in quegli avvisi fatti concreti (complicate sanzioni e via dicendo), la Russia legge soltanto la debolezza di un cane - l'Occidente di Washington - che abbai da lontano: e che, come sulla Siria, sull'Iran, sull'Afghanistan, e via dicendo, stenta a trovare una soluzione. E l'America che paga la volontà d'isolamento di Obama, si tira dietro tutti gli altri.
L'Italia in questo caso, non ha sbagliato: ferma restando la necessità della condanna morale, lanciata insieme agli altri del G7, la via diplomatica proposta dal nostro paese sembra l'unica percorribile, quanto meno per impedire che Putin si diffonda anche oltre i 5 chilometri dell'istmo di Perekop per passare nel resto dell'Ucraina - e sentirsi "quasi in dovere" di arrivare chissà dove (Georgia e Moldova?).
In queste ore è uscito anche un discusso ultimatum russo (reso noto dall'agenzia Interfax che cita fonti ucraine): entro le 5 di domattina sembra sia stata richiesta la resa dell'esercito, altrimenti attacco militare. Il governo di Kiev fa da sponda all'aggressività russa, rispondendo che sarà impedito l'ingresso delle forze armate straniere nel territorio dell'Ucraina - da notare, che non si parla di Crimea, ma di territorio ucraino, quasi dando per scontato che la fine della penisola (repubblica indipendente) sia già stata scritta e porti la targa russa.
Da Mosca negano, definiscono l'ultimatum militare con un «totally nonsense».
Putin è ormai a tutti gli effetti incontrollabile: e la colpa è anche nostra, di noi occidentali, che lo abbiamo lasciato libero in un contesto geopolitico dove si è sentito legittimato ad agire - e anche qui, ricorrono gli spettri della Gerogia, dell'Ossetia "regalata" di Obama neo presidente in cambio della ricostruzione dei rapporti tra le due potenze.
Ma Putin non è mai stato un partner. E la volontà di Obama di bypassarlo per muoversi liberamente come "pivot" d'Oriente - su questo si basava, anche, la ricostruzione dei rapporti - lasciandolo libero di agire, è stata letta come indice di mollezza. Ignorarata la Russia ha avuto terreno fertile per creare i presupposti della ricostruzione dell'impero, un impero strategico; sogno di Putin, che dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica mirava proprio a riaffermare la primarietà della Russia sul palcoscenico internazionale - e a giudicare dal peso che sta esercitando sulla gran parte dei dossier aperti a livello globale (i sopracitati Siria, Iran, e via dicendo), sembrerebbe esserci riuscito.
Ricordava Christian Rocca (direttore di IL, magazine del Sole 24 Ore) che quando Mitt Romney, durante le ultime presidenziali, definì la Russia «la principale minaccia geopolitica per l'America» fu oggetto di scherno, tacciato come reazionario nostalgico, legato ai vecchi schemi. Invece probabilmente aveva ragione: e anzi, non solo per l'America, ma per tutto il mondo.
Se è vero che come ha detto la Cancelliera Merkel al telefono con Obama, raccontando della sua conversazione con Putin, il presidente russo è fuori controllo - «vive in un altro mondo», ha "perso il contatto con la realtà -, la mediazione diplomatica sposata anche dall'Italia resta comunque l'unica possibile, difficile e delicata, soluzione.
Con Mosca che giocherà la doppia carta: la diplomazia con l'estero e l'ultimatum all'interno dell'Ucraina.
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