di Stefania Rocca.
THE HOME OF JAZZ
Ricordo come fosse ieri la sera che la vidi entrare al Molly’s, un metro e sessanta di pura grazia. Camminava con l’aria fiera, accompagnata da due omaccioni che scomparivano al suo fianco. Non era quel genere di donna che un uomo segue con lo sguardo per tutto il tragitto che essa compie davanti ai suoi occhi ma tutto in lei emanava sicurezza. Nera come il petrolio, bocca carnosa e occhi profondi; indossava un vestito rosso che finiva poco sopra le ginocchia e lasciava ampio spazio al seno prominente, i capelli liscissimi erano tirati su in uno chignon laterale che copriva leggermente il robusto collo. Appena la vidi pensai ehi, lei si che sa il fatto suo. Distolsi lo sguardo dalla venere nera e mi accorsi che non ero stato l’unico a notarla, i miei inseparabili compagni di bevute avevano avuto la mia stessa impressione, lo percepivo dai loro sguardi. George fissava il vuoto, perso nei suoi pensieri, facendo passare le dita lunghe e affusolate sul bordo del bicchiere, l’ennesimo ormai vuoto. Larry e Buddy avevano ripreso l’animata conversazione che l’entrata di quella donna misteriosa aveva per un attimo interrotto. Io me ne sbatto di questi idioti americani che non sanno apprezzare la buona musica, urlava Larry, io suono perché non posso fare altrimenti e il bacio del mio sax, oh Signore, è tutto ciò che conta. Non possiamo continuare cosi, ci esibiamo in piccoli locali di periferia, ignorati dalle masse, per pochi centesimi a serata. Per non parlare di quello che spendiamo per questo nettare inebriante, ribatté Buddy indicando con un cenno della testa la bottiglia di scadente Scotch sul nostro tavolo. Decisi d’intervenire, c’è poco da discutere ragazzi, noi suoniamo perché ci piace farlo, ci piace quando la gente applaude, anche se sono quattro gatti, anche se la critica ci disprezza. Siamo l’innovazione, la passione. O così o niente, per me non ci sono altre soluzioni. La musica iniziò in quel momento, quasi fosse un accordo per terminare una conversazione intrapresa troppe volte. Erano gli anni del cambiamento culturale americano, gli anni del grande jazz che avrebbe rivoluzionato tutto il mondo, solo che ancora noi non lo sapevamo. Ci incontravamo ogni sera in un locale diverso, sempre posti poco raccomandabili, con proprietari pigri e ignoranti che ci facevano suonare in cambio di qualche bicchiere. Erano anche gli anni del proibizionismo e del mercato nero di alcolici, noi eravamo ribelli, ma ribelli buoni, e sapevamo dove e come procurarci un po’ di whiskey. Sul palco del Molly’s su cui tante volte avevamo chiesto di suonare, con scarso successo, una band swing cominciò la sua esibizione, un gruppo come tanti. Prima che potessi finire di lamentarmi per la banalità del giro suonato, però, una voce roca e graffiante raggiunse il mio orecchio facendomi drizzare i peli del corpo. Mi volsi a guardare da quale cassa toracica potesse arrivare cotanta forza espressiva, cotanto vigore, ma prima che i miei occhi vedessero realmente una figura umana a cui associare quel suono, gli occhi del mio cuore avevano già visto. La venere nera, cosi ormai l’avevo ribattezzata nella mia testa, ci dava dentro sul palco. Quando ascolto musica dal vivo mi piace osservare i visi della gente e le loro espressioni per indovinarne le sensazioni. Non era difficile con i miei amici, guardarli era come guardar me stesso allo specchio, Larry aveva perso l’aria da stronzetto presuntuoso e teneva le mani congiunte di fronte alla bocca quasi in preghiera, Buddy aveva un luccichio negli occhi che gli vedevo comparire solo quando prendeva in mano la sua cornetta e George, oh il tenero George, un omone di un metro e ottanta con i denti più bianchi di tutta Chicago, che dico, di tutto il mondo, piangeva. Per una buona ora restammo li in religioso ascolto a godere di quella voce divina. La serata terminò e ci ritrovammo come sempre ubriachi per le strade di Chicago a prendere a calci i cassonetti e spaventare i gatti. Quella sera però era diverso, qualcosa frullava nelle nostre stupide testoline. Jelly, mi disse George prendendomi la testa sotto il suo possente braccio, quella donna è ciò che ci manca. So che lo state pensando tutti ragazzi, con una potenza cosi potremmo rendere la nostra musica più appetibile per il pubblico. E magari, chi lo sa, in poco tempo potremmo non aver più bisogno del canto per essere apprezzati. Abbassa la voce George, lo apostrofò Buddy, è tardi e la gente dorme. Poi continuò, sono d’accordo con te amico, il problema è che nessuno si ferma ad ascoltarci con attenzione, ci ritengono degli incompetenti, dei burattini messi li a produrre note a caso. Il nostro pubblico è composto il più delle volte da troie e stronzi italoamericani. Cosa vuoi che ne capiscano loro! Larry decise di lasciar perdere il sasso che continuava a calciare giù per la strada e avvicinandosi a noi prese parte alla conversazione, sarà la volta buona che quel farabutto di Michael ci permette di suonare al Molly’s. Oh ragazzi, piano, piano, piano, cercai di riportarli alla realtà perché l’alcool e l’emozione di quella serata li avevano esaltati più del necessario, non fatevi prendere dall’euforia. State facendo congetture basate sul nulla. Non sappiamo niente di quella donna, né il suo nome, né il suo indirizzo, né i suoi gusti musicali, chi vi dice che sarebbe disposta a cantare per noi? Con noi, vorrai dire, mi corresse Buddy, e comunque ti sbagli, una cosa la sappiamo, canta come un fottuto Dio.
Le prime luci dell’alba ci avvisarono che la nostra notte, la notte di tutto il mondo, volgeva al termine. Tornai a casa a pezzi ma non riuscì a chiudere occhio.
Mi alzai dal letto di buona lena, il che per me significava le cinque del pomeriggio, e prima di incontrarmi con i ragazzi decisi di andare al Molly’s per riuscire a raccattare qualche informazione sulla nostra cantante. Ehi Mike, una soda per favore! Esordì cosi non appena misi piede nel locale. Prima consumi, poi parli era il motto di Michael. Era un uomo grezzo e sporco, tutte le sue caratteristiche erano assimilabili a una sola descrizione: il tipico americano medio. Mi guardò dall’altro lato del bancone con poca convinzione mentre lavava e asciugava bicchieri preparandosi per l’apertura serale. Ecco a te, mi disse porgendomi la soda. Cercai di cominciare una conversazione facendo leva sui suoi interessi, sei andato a guardare di recente i Chicago Staleys? Certo, proprio due giorni fa, mi rispose, ma non aggiunse altro e il suo modo di far cadere la conversazione mi fece capire che non voleva perdersi in inutili chiacchiere. Ascolta, gli dissi senza tanti preamboli, sono venuto qui con uno scopo. Una volta tanto, mi apostrofò ridendo sotto i baffi della sua battuta a dir poco scontata. Simpatico, gli risposi, comunque dicevo, sono venuto qui con uno scopo, vorrei avere qualche informazione sulla ragazza che ha cantato qui ieri sera con i Grillet Bears. Chi? Janet? Non so il suo nome, continuai, ma so che voglio conoscerla e parlarle, puoi aiutarmi? Michael tacque per qualche minuto e io scolai tutta d’un sorso la soda ghiacciata per impegnare la bocca e non parlare mentre il buon vecchio Mike, si fa per dire, meditava. Dunque Jelly, da quello che ho capito tu vorresti il suo indirizzo, disse finalmente. Mi accontenterei anche del nome della sua parrucchiera. Mmm, e io cosa ci guadagno?, mi chiese. “Vecchio figlio di puttana”, pensai nella mia mente, “sempre a pensare al proprio tornaconto”. Tirai fuori tutto il denaro che possedevo in tasca e lo misi sul bancone, dal suo sguardo di approvazione capii che gli sembrava sufficiente. Vive con una vecchia zia a South Branch, in Eleonore Street, non so dirti altro. Grazie Mike, grazie davvero. Corsi fuori dal locale e cominciai a camminare a passo svelto per raggiungere la mia meta il prima possibile, le indicazioni erano state abbastanza vaghe ma, non so per quale ragione, ero sicuro che quel pomeriggio stesso sarai riuscito a parlare con la venere nera, Janet, cosi l’aveva chiamata. Dopo una buona mezzora di camminata arrivai in Eleonore Street e cominciai a guardarmi intorno in cerca di un qualche segnale che mi avvicinasse alla mia meta; all’angolo della strada dei ragazzini giocavano con una palla ed essendo gli unici esseri umani che mi era dato vedere in quel momento decisi di chiedere a loro. Ehi ragazzi, posso chiedervi un’informazione? Salve signore, certo, dica pure. Disse il più piccolo dei tre, un bambino biondo con i denti sporgenti e un berretto che gli copriva gli occhi, una faccetta tutto sommato molto simpatica. Sto cercando una certa Janet, la conoscete? Si signore, abita in quella casa li. Mi rispose sempre lo stesso bambino, a quanto pare meno timido dei suo amici, indicandomi un’abitazione tinteggiata di un verde acqua ormai eroso dalle piogge e dai venti che avevo scoperto il bianco sotto. Mi avvicinai alla casa. Il giardino era ben tenuto anche se l’erba cominciava a diventare troppo alta. Il portico impolverato accoglieva un dondolo e una poltrona sulla quale istantaneamente mi immaginai la vecchia zia della ragazza con una tazza di the e una coperta sulle gambe. Bussai. In un primo momento non ottenni risposta. Riprovai. Dopo qualche secondo sentii dei passi avvicinarsi e Janet aprii la porta. Rimasi un attimo in imbarazzo, non mi ero preparato nessun discorso, in realtà tutto avevo pensato tranne cosa le avrei detto una volta incontrata. Desidera? Mi chiese sorridendo. Si, salve, risposi con qualche secondo di ritardo, sono un musicista e ieri l’ho ascoltata cantare al Molly’s. Sono rimasto molto colpito. Il suo sguardo perplesso mi disse che ancora non aveva afferrato il motivo della mia visita e decisi di andare dritto al sodo. Mi chiedevo se volesse, e se potesse naturalmente, venire a sentire suonare la mia band stasera e magari provare a improvvisare qualcosa con la sua voce sulla nostra musica. Mi guardò fissamente senza darmi una risposta, lasciandomi in una dubbiosa situazione, non sapevo se continuare a parlare o aspettare una sua risposta. Optai per la seconda soluzione e la risposta tanto attesa non tardò ad arrivare. La sua proposta è molto gentile, sono lusingata, verrò volentieri ma non canterò, ho già una mia band. Era più di quanto avessi osato sperare per cui decisi di non insistere e aspettare che la sorte facesse il suo corso, io avevo fatto fino ad allora tutto quanto fosse in mio potere. Ci accordammo dunque per vederci la sera stessa, in un locale poco lontano da casa sua, una bettola forse sarebbe meglio definirla, dove ci saremmo esibiti di li a poche ore.
Quando cominciammo a suonare quella sera, Janet non era ancora presente e dopo il terzo pezzo cominciai a pensare che non sarebbe più venuta. Il quarto brano era uno dei nostri cavalli di battaglia, la musica iniziava lenta, le mie dita sfioravano i tasti del pianoforte mentre gli strumenti a fiato tacevano aspettando il loro turno per entrare in scena. Le note venivano fuori cosi come erano scritte nella mia testa e il resto veniva lasciato all’improvvisazione; in quei rari momenti estatici in cui esistiamo solo io e il mio piano, la mente si ferma e l’unica cosa che riesco a sentire è il battito del mio cuore che scandisce il ritmo del mio jazz. Un parco di notte illuminato da un lampione e un anziano signore in attesa di non si sa che cosa, ma in attesa, che guarda il vuoto e si lascia andare ai ricordi della sua intera vita; poi Larry spara i suoi polmoni nel suo sax e l’atmosfera cambia, la luce non proviene più da un solo lampione, ma da dieci, cento e una signora spalanca la finestra e lascia che profonde note blues escano dal suo grammofono e arrivino all’orecchio stanco dell’anziano signore solo nel parco. Questo è lo scenario che si prospettava alla mia mente mentre sudando per il caldo e la foga pigiavo con veemenza le dita sugli interminabili tasti bianco-neri e i fiati si abbandonavano alla passione. Alzai lo sguardo e la vidi, era sola appoggiata al bancone e sorseggiava una soda. Gli occhi erano inespressivi ma la bocca era leggermente piegata di lato in un sorriso tra il divertito e lo sbeffeggiante. Non riuscivo a penetrare la sua espressione, non capivo le sue impressioni. Però era venuta ad ascoltarci, una donna di parola, o una donna curiosa. O entrambe. Lo spettacolo finì dopo un paio d’ore e lei era ancora li immobile; c’erano in tutto una decina di persone nel locale ed erano troppo stanchi o troppo annoiati per applaudire. Comunque ci eravamo abituati. George, Buddy e Larry riposero gli strumenti nelle apposite custodie e io approfittai del mio piccolo momento di libertà per avvicinarmi a Janet. Sei venuta, esordì. Non potevo trovare modo più scontato di approcciare. Certo, eravamo d’accordo. Non disse altro e io non sapevo se chiederle un parere sulla nostra esibizione o aspettare che si sbilanciasse da sola. Prima che finissi di chiedermelo lei parlò; mi piace la vostra musica, siete unici nel vostro genere. Sono contento che la pensi così, è il primo parere positivo che sento da molto tempo e il migliore che ci sia mai stato fatto, le risposi. Penso che insieme si potrebbe creare qualcosa di carino, continuai. Non ottenni risposta (chi tace acconsente?). Sentivo ancora quell’irrefrenabile desiderio per lei, non so se fosse solo per la sua voce o se quello fosse un valore aggiunto, so solo che l’avrei baciata seduta stante e l’avrei fatto se i miei compari non si fossero avvicinati rompendo la magia. Loro sono George, Larry e Buddy, lei è Janet. Hai una voce strepitosa sorella, le disse George porgendole la mano. La ringrazio, gli rispose lei educatamente. Come ti è sembrato lo spettacolo, le chiese Larry senza mezzi termini, hai considerato l’idea di cantare con noi? Ne sarei lusingata, ma non posso, mi dispiace. Buddy alzò gli occhi al cielo e si girò verso il barista chiedendo da bere. Se cambi idea comunque sai dove trovarci, le disse George facendolo un occhiolino amichevole prima di seguire Buddy al bancone. Anche Larry si congedò lasciandoci soli. Facciamo due passi se ti va, le proposi, ho bisogno di prendere un po’ d’aria. Lei annuì, mi prese sotto braccio lasciandomi un po’ spiazzato e insieme ci avviammo verso i vicoli bui di Chicago. Camminavamo sorseggiando Scotch da una fiaschetta, in silenzio per qualche metro, avvolti dai nostri cappotti invernali. Il mio era di almeno una taglia in più, di un verde improponibile e scucito dall’interno, l’avevo trovato buttato in un cassonetto della spazzatura ma mi sembrava ancora troppo nuovo per andare sprecato, così pensai romanticamente di regalargli una seconda vita. Più e più volte mi sono domandato chi fosse il primo proprietario e ogni volta mi sono immaginato una persona diversa, dal politico di quartiere, al panettiere sotto casa, dal senza tetto all’imprenditore di successo. In ogni caso, non importava di chi fosse stato nella sua vita precedente, adesso era mio e camminava di fianco a Janet ammirando il suo profilo perfetto. Mi piace passeggiare di notte, disse rompendo il filo dei miei pensieri, potrà sembrare strano per una cantante la cui occupazione principale è quella di produrre suoni, ma mi piace la voce del silenzio. A me mette un po’ di malinconia, le risposi, ovviamente dipende dalla compagnia. Stasera sono tutt’altro che malinconico, mi piace la tua compagnia, mi sento a mio agio e mi metti tranquillità. Sai, non sono tanti i momenti in cui riesco ad essere tranquillo e pacato con i ragazzi. Sono simpatici, disse interrompendomi, George, si chiama George giusto il tipo alto abbronzato? Beh si, lui mi sembra molto dolce. Il biondino tutto barba invece mi sembra un po’ altezzoso, disse riferendosi a Larry. Non ci fare caso, le risposi, è tutta una facciata, cerca di darsi un tono per sembrare una persona importante ma tutto sommato ha un cuore d’oro. E’ una persona molto fedele e onesta, darebbe la vita per i suoi amici, e per il suo sax. E tu invece, che tipo sei? Mi chiese guardandomi maliziosa. Lascio giudicare agli altri fu la mia semplice risposta. Allora ti dico l’impressione che ho avuto io in queste poche ore di conoscenza. Mi sembri una persona affidabile, non so cosa me lo faccia dire ma sento che di te ci si può fidare. Sembri un tipo intelligente e profondo, ogni tanto ti estranei e in silenzio pensi a chissà cosa, ti perdi dietro a chissà quali congetture e immaginazioni. Mmm, direi che come prima analisi non c’è male, le dissi sorridendo, mi hai descritto anche meglio di quello che sono in realtà. Io invece ti dico una cosa che penso di aver capito su di te, ma non prenderla nel modo sbagliato, è molto probabile che io mi sbagli. Mi incitò a esporre il mio punto di vista. Così glielo esposi: quando parli faccia a faccia con le persone tieni sempre un piede indietro rispetto al corpo quasi fossi sul punto di scappare e tieni le braccia incrociate sotto il petto, sulla difensiva. Non parli molto e aspetti che siano gli altri a fare la prima mossa, e quando la fanno, come me prima quando ti ho chiesto di venire fuori a fare due passi, strizzi gli occhi come quando un miope cerca di vedere meglio cosa c’è scritto sui cartelloni pubblicitari dall’altro lato della strada. Mediti, forse, e cerchi di capire se c’è qualcosa sotto o se le proposte che ti vengono fatte sono sincere e non c’è niente sotto. Janet continuò a camminare a testa bassa, annuendo di tanto in tanto con l’ espressione corrucciata. Continuò a camminare senza dire una parola e cominciai a pensare di essere stato troppo sfacciato, di aver rovinato quel po’ di intimità che eravamo riusciti a creare e di averla riportata a chiudersi nel suo guscio. Arrivati davanti a una tavola calda mi disse entriamo, ti offro un caffè e ti racconto qualcosa della mia vita. Il locale era vuoto, a parte due ragazzi che mangiavano un cheeseburger nell’angolo più buio della sala. Un lungo bancone separava i tavoli dalla cucina e dietro di esso venivano esposti tanti dessert da poter accompagnare a un buon caffè, il mio occhio cadde subito su un invitante strudel di mele. Le pareti erano decorate con stampe e fotografie su un triste sfondo marrone scuro e i tavoli erano di legno grezzo. Due alte piante dalle foglie larghe stavano ai lati della porta d’ingresso e un cartello con due omini disegnati indicava la posizione della toilette. Ci sedemmo al primo tavolo che ci trovammo davanti e una gentile e giovane cameriera venne a prendere le ordinazioni. Entrambi optammo per un caffè caldo e lo strudel di mele. Mentre sorseggiava il suo caffè, Janet cominciò a raccontarmi la sua storia. Da bambina viveva con sua madre, suo padre e due fratelli di poco maggiori in una fattoria nel cuore del Texas; aveva avuto un’infanzia felice, trascorsa tra cavalli, fieno e amici della zona. Prima che potesse compiere gli undici anni di età però suo padre morì lasciando la fattoria nelle mani dell’inesperta madre che si era sempre occupata molto di più della casa e dei figli che dell’impresa di famiglia. I suoi fratelli avevano solo un paio di anni in più di lei e anche loro quindi si trovarono inadatti al compito che gli era piombato sulle spalle. Avevano sempre aiutato il padre nei piccoli lavori quotidiani ma gli mancava la visione d’insieme. Sapevano come pulire i cavalli, dar loro da mangiare, seminare il grano, ma non sapevano fare affari. Non sapevano comprare né vendere a buon prezzo, e presto vennero mangiati da pesci più grandi e si trovarono pieni di debiti, la fattoria fu venduta e la madre si ritrovò a lavorare come domestica in quella che prima era la casa di sua proprietà. I nuovi proprietari presero a cuore i fratelli maschi e li assunsero come tutto fare nella loro stessa fattoria. Janet invece era destinata a diventare una brava domestica come sua madre e fu subito messa all’opera: lavava, stirava, cucinava, rammendava. Quella vita però le andava stretta, si sentiva sprecata, le mancava suo padre, lo malediceva ogni sera per averli abbandonati alla loro misera vita. Un giorno, mentre la madre era in paese a fare la spesa e i fratelli impegnati con i cavalli decise che non ne poteva più, che non voleva diventare una donna delle pulizie, e cosi lasciò un biglietto alla povera madre e scappò di casa. Quando durante il racconto nominava la madre le salivano le lacrime agli occhi e con orgoglio cercava di ricacciarle dentro e fingere che non facesse ancora cosi male. Credo che il dolore che provasse fosse in massima parte dovuto al fatto che si sentisse in colpa per averla abbandonata. Da quel giorno in poi cominciarono mille peripezie, fece ogni genere di lavoro e alloggiò sotto ogni genere di ponte, conobbe gente molto cattiva che sfruttò il suo corpo e la sua ingenuità facendole molto male. Non entrò nel dettaglio di questa parte della sua vita, probabilmente non era ancora pronta a farlo. Per circa quattro anni girovagò per l’America centrale fino a quando la ruota della fortuna non cominciò a girare anche un po’ dalla la sua parte ed arrivò a Chicago. Qui, conobbe Leonard che la iniziò allo swing, le fece sentire per la prima volta la musica di Count Basie e Duke Ellington e sentendola cantare con la sua meravigliosa voce roca fece di lei la star degli “swing ‘n win” cambiandole la vita. Dopo aver ascoltato la sua storia, Janet mi sembrava ancora più bella, di quella bellezza fragile che senti di dover proteggere; lei aveva tutto un mondo dentro ed io avevo sempre più voglia di scoprirlo. Uscimmo dal locale che era notte fonda e mi proposi di accompagnarla a casa, lei acconsentì e cosi ci avviammo quasi in silenzio. Ero paralizzato da tutte le storie che avevo appreso sulla sua vita e non riuscivo a trovare qualcosa di sensato da dire, un po’ per paura di sembrarle stupido, un po’ per paura di sembrarle invadente. Ottenni però l’effetto che volevo evitare di ottenere: lei si intristì e non mi degnò più di uno sguardo. Arrivammo alla porta della sua casa e lei fece per congedarsi, bene sono arrivata, disse, grazie per la piacevole compagnia. E’ stato un piacere, le risposi sorridendo, davvero. Non sei obbligato a mostrarti gentile, so che la storia della mia vita è tutt’altro che piacevole e lo capisco se non vuoi avere a che fare con una donna come me. Una donna come te? le chiesi stupito, ma cosa dici? Aveva completamente frainteso i miei silenzi, ero stato uno stupido a non parlare e non dirle quello che sinceramente pensavo; quella meravigliosa, sfaccettata creatura pensava che fossi sconvolto da quello che degli uomini, che non saprei come altro definire se non bastardi, le avevano costretto a fare del suo corpo. Mi hai completamente frainteso, le dissi con la foga di chi vuole farsi capire a tutti i costi, io non penso assolutamente male di te, non potrei mai! Sono sopraffatto da tutto ciò che mi hai raccontato, ma non per i motivi che pensi tu. Sono arrabbiato, perché credo che nessuno meriti di vivere la vita che tu hai vissuto: perdere un padre in età giovanissima, abbandonare una madre e dei fratelli, vivere per strada, girovagare senza una meta, subire abusi. E dall’altra parte sono dispiaciuto perché penso che tutto quello che hai vissuto ti ha segnato sicuramente in un modo inimmaginabile e non so più come rapportarmi a te, non so bene come comportarmi. Per esempio, adesso vorrei prenderti e baciarti ma non so come potresti reagire a questa mia presa di posizione. Tacqui. Lei si avvicinò e mi baciò teneramente, stringendomi le braccia al collo e accarezzandomi i capelli con le sue piccole dita. Io rimasi impalato come uno stoccafisso senza muovere un muscolo. Non so se sia stato il suo bacio o tutto lo scotch che avevo in corpo ma in quel momento smisi di sentire il freddo notturno di Chicago.
La mattina seguente mi svegliai prestissimo, ma veramente presto, saranno state le dieci del mattino. Aprii leggermente gli occhi e cominciai a vedere la luce della stanza, allungai una mano sul posto vuoto di fianco a me nel letto, cercandola, ma non la trovai. Mi alzai dal letto ancora nudo ed ebbro cosi come mi ero addormentato la sera prima dopo aver fatto l’amore con Janet. Inutile dire quanto fosse stato bello possederla, non solo fisicamente, ma sentirmi accettato nella sua vita, parte di lei. Il profumo del caffè appena fatto mi guidò fino in cucina dove la mia venere nera stava preparando la colazione. Mi sentii eccessivamente soddisfatto al pensiero che adesso potevo aggiungere l’aggettivo possessivo “mia” davanti al soprannome che le avevo affibbiato la prima sera che la vidi al Molly’s. E pensai viva la proprietà privata, viva gli aggettivi possessivi. Poi tornai in me e mi imposi un certo contegno, dopo tutto era stata una sola notte, forse (ma forse), troppo poco per fare di lei qualcosa di mio possesso (spirituale s’intende!). Si voltò a guardarmi quando mi sentii arrivare e sorridendo mi disse, potevi almeno metterti una vestaglia, ci sono sempre un mucchio di ragazzini che giocano di fronte al mio cortile; poi mi sfiorò le labbra e mi porse una tazza di fumante e profumato caffè. Andò in camera, probabilmente a prendermi qualcosa da mettermi addosso, e mi lasciò da solo, sempre nudo come un cane, a guardare fuori dalla finestra. Non vedevo da troppo tempo la mia città illuminata dal sole mattutino e la cosa mi commosse a tal punto che dovetti fare uno sforzo per non farmi bagnare la guancia da una stupida lacrima. Roba da femminucce mi avrebbe detto Larry; sorrisi al pensiero.
Passammo tutto il giorno a casa facendo la spola tra il bagno e la camera da letto, un po’ d’amore e una bella doccia, non ero mai stato più pulito in vita mia. A una certa ora, riluttante, mi vestii e uscì di casa per incontrarmi con i ragazzi, quella sera saremmo sicuro passati dal Molly’s per un drink e per sentir suonare l’ennesimo gruppo che non era il nostro. Janet ci avrebbe raggiunto più tardi quella sera stessa e a sole quattro ore di distanza dal nostro romantico saluto sul ciglio della porta non vedevo l’ora di abbracciarla di nuovo.
Quando entrò nel locale io ero, come sempre, seduto al tavolino con i ragazzi, e non ci volle molto prima che si accorgessero di quello che stava succedendo tra di noi. Appena la vidi la mia bocca si allargò in maniera incontrollabile in un enorme sorriso e Larry appena mi vide con i denti in bella mostra e il luccichio negli occhi si girò verso la porta d’ingresso, vide Janet, si portò con forza il palmo della mano alla fronte ed esclamò oh cazzo Jelly, te la sei scopata non è vero? Buddy e George scoppiarono a ridere e cominciarono a darmi pacche sulle spalle, eh bravo il nostro Jelly Jay! Così si fa amico! Ci avete dato dentro eh? E tutta una serie di frasi del genere. Non fate i bambini cazzo, risposi a tutte le loro esclamazioni sorridendo, prima di tutto non sono affari vostri, secondo non è stata solo una scopata. Quella donna mi è entrata dentro! Restarono stupiti nel sentirmi così serio; dall’ultima volta che ero stato con una donna, non solo per farci sesso intendo, erano passati quattro anni. Daisy mi aveva spezzato il cuore in pezzi cosi minuti che ci avevo messo anni per ritrovare tutti i cocci e ricostruirlo interamente. Era stato l’amore della mia vita sin da quando la mia mente è in grado di ricordare; vivevamo nella stessa via per cui eravamo letteralmente cresciuti insieme, giocavamo nello stesso cortile, facevamo merenda insieme, andavamo a scuola insieme, condividevamo qualunque cosa. Non ci volle molto, una volta raggiunta la pubertà, prima che l’amicizia si trasformasse in amore. Era stato grazie a lei che avevo conosciuto i ragazzi ed era stata lei a spingerci a formare una nostra band, non saltava una sola prova, non una sola esibizione. Ci sposammo giovani, io avevo solo ventidue anni, lei uno in meno di me. Crescendo, cambiando, cominciammo a capire che il nostro rapporto non poteva rimanere lo stesso di dieci anni prima, che noi eravamo cambiati come persone ma rimanevamo gli stessi all’interno della coppia. E’ ancora difficile da spiegare, ma ci sentivamo come un freno inibitorio l’uno nei confronti dell’altro. Io sapevo esattamente come la Daisy che conoscevo avrebbe agito in una determinata situazione e lei sapeva che io mi aspettavo un determinato comportamento da lei e, anche se avesse voluto agire diversamente, si sentiva guidata dal mio giudizio verso la via che io avevo scelto per lei. Daisy non mi avrebbe mai tradito, era una persona fedele, ma decise proprio in quella circostanza di dimostrarmi che era cambiata e che io non sapevo sempre e comunque quale sarebbe stato il suo comportamento. La cosa più brutta di tutta la faccenda fu probabilmente l’averla colta in fragrante, avevo sempre visto il suo corpo sotto il mio, le sue gambe intorno alla mia schiena e le sue dita tra i miei capelli; ho continuato a vederla fare l’amore con qualcun altro per almeno un anno, ogni volta che chiudevo gli occhi.
Ritornai in me dopo essermi perso in questi pensieri per qualche secondo, nel frattempo Janet si era avvicinata al nostro tavolo, buonasera signori, esordì. Buonasera a te, bellissima, le rispose George, sempre molto galante. Tra di noi ci fu solo un tenero e complice scambio di sguardi. Larry si alzò per procurarle una sedia da aggiungere al nostro tavolo, rimasi stupito da questo gesto di gentilezza. Janet si accomodò e cominciò un’allegra chiacchierata. Sono bravi, disse facendo segno con la testa al gruppo di giovani che si stava esibendo sul palco. Si, niente male, disse di rimando Buddy senza esaltarsi troppo. Se tu cantassi con noi saremmo dieci volte meglio, affermò Larry sbattendo il bicchiere vuoto sul tavolo. Janet sorrise senza contraddirlo. In lei era cambiato qualcosa, nell’atteggiamento verso i ragazzi e nell’atteggiamento verso la nostra proposta di esibirci insieme, sembrava che l’idea la stuzzicasse. Mi sentivo lusingato perché sapevo che la notte passata insieme aveva fatto la differenza nei suoi pensieri, ora lei non si preoccupava solo di come esaudire i suoi desideri ma, forse soprattutto, di come esaudire i miei. Feci un giro di ricognizione veloce con lo sguardo, ero quasi sicuro che avessimo tutti gli strumenti con noi e la rapida occhiata me lo confermò. Mi venne in mente un’idea cosi, su due piedi, la proposi a tutti: ehi, perché non ci esibiamo anche noi stasera?. Nessuno mi rispose ma mi fissarono con sguardo dubbioso, otto sopraciglia sollevate nello stesso istante, otto fronti increspate. Perché mi guardate cosi?, continuai, non è un’idea stupida. Abbiamo tutti gli strumenti a portata di mano e siamo soliti improvvisare. Io non so improvvisare, affermò Janet. Certo che sai farlo, le risposi toccandole la mano poggiata sopra il tavolo, la tua voce è un dono, appena sentirai la musica uscire dai nostri strumenti saprai cosa farci. Non posso inventarmi un testo su due piedi, continuò ad obiettare. Non devi per forza cantare qualcosa di sensato, puoi emettere dei suoni che stiano bene sopra le note che suoniamo. Continuavano a guardarmi con aria perplessa. Buddy fu il primo a interrompere il silenzio che era sceso tra di noi, un silenzio fatto di immaginazione e rimuginazioni. Mike non ci permetterebbe di suonare stasera, affermò Larry sconfitto. Se glielo chiedo io si, rispose sicura Janet. Non c’erano più obiezioni possibili, bisognava solo chiedere al proprietario del locale e capire se ci avrebbe permesso di fare la peggiore figura della nostra vita o la migliore performance di tutti i tempi. Janet si alzò dal tavolo e si avvicinò al bancone, la osservammo mentre per alcuni minuti confabulò a bocca stretta con Michael che dapprima sembrava contrariato, ma assunse dopo poco un’espressione molto soddisfatta. E’ fatta, disse la mia venere nera tornando al tavolo. Come hai fatto? Le chiese stupito George. E’ stata piuttosto facile, gli rispose Janet sorridendo maliziosamente, sono mesi che Mike sbava dietro mia sorella. Non sapevo avessi una sorella, dissi interrompendola. Si, non abita con me da un po’ di tempo, si è trasferita con mia zia in un paesino poco lontano da qui, per essere più vicina a lavoro. Fa la cameriera in una tavola calda, continuò, e ogni tanto viene a trovarmi e a sentirmi cantare. Ogni volta che la vede, Mike perde la testa. Gli ho promesso che avrei messo una buona parola per lui e gli avrei procurato un appuntamento. Tutto sommato, a lei non dispiace. La guardammo tutti compiaciuti, gli uomini erano cosi facili da manipolare. Adesso che l’accordo era stato fatto però, cominciammo a fremere in attesa della nostra esibizione. Eravamo tutti piuttosto tranquilli, tranne Janet che mostrava una certa agitazione. Cercammo di tranquillizzarla facendo leva sul suo ego, ogni artista ama essere lodato per le sue doti. Continuammo con il nostro training autogeno finché l’altro gruppo sul palco non smise di suonare. A quel punto Mike annunciò che la serata non era ancora finita ma che un altro gruppo di ragazzi, con la speciale partecipazione della loro amata Janet, avrebbe eseguito qualche canzone. Fortuna volle che quella sera, essendo sabato, il locale fosse pieno di gente che non voleva assolutamente tornarsene a casa, visto che era l’unica sera in cui poteva spassarsela un po’ senza preoccuparsi della giornata lavorativa alle porte; così accolsero l’annuncio di Mike con entusiasmo e molti più applausi di quanti ce ne avessero fatti in tutta la nostra vita, e senza neanche esserci esibiti! George, Larry e Buddy tolsero gli strumenti dalla fodera, io mi accomodai al piano e cominciai a scaldare le mani con qualche scala. Janet si schiarì la voce al microfono e salutò la sala, poi si girò verso di me, io sentii il suo sguardo addosso e le feci l’occhiolino mentre continuavo a toccare i tasti. La vedevo agitata e tremante ma sapevo che non mi avrebbe deluso. Quando fummo tutti pronti, Larry batté il piede destro quattro volte sul pavimento di legno e quello fu il nostro segnale d’inizio. Il sax risuonò possente per tutta la sala mentre tromba e cornetta andavano all’unisono. La nostra cantante cominciò semplicemente a muoversi sul palco, cercando di prendere familiarità con il ritmo. La sala era poco illuminata, tanto che non si riuscivano a vedere i volti del pubblico, l’atmosfera era calda e tutti erano in attesa della svolta. Questa tardò poco ad arrivare; mentre ero tutto preso dalla mia musica, dal mio magnifico pianoforte, sentì esplodere la voce di Janet nella sala. Io e Buddy smettemmo un attimo di suonare tanta fu la sorpresa di quella voce venuta dal nulla per risvegliare i nostri demoni più remoti, George e Larry continuarono a tenerle il ritmo. Il canto roco di Janet proseguì senza sosta come se venisse fuori da un grammofono: vero, sincero, sofferto. Era questa la svolta che cercavamo, nella sua voce si sentiva la pena della vita vissuta, la speranza della vita futura e la passione della vita presente. Anche il pubblico restò dapprima senza parole, non si sentì alcun suono per tutta la durata del brano, non riuscivo a vedere nessuna faccia, solo ombre nere e immobili, ma ero sicuro che fossero tutti a bocca aperta. Era una manifestazione d’arte completamente nuova, inattesa. Ci si aspettava delle parole con un senso, una classica esibizione canora e invece quello che venne fuori fu una serie di suoni gutturali e di urli cosi ben controllati da mozzare il fiato. Ogni volta che Janet andava più su con la voce io pensavo “questa volta non ce la, questa non la prende, pretende troppo” e l’attimo dopo venivo smentito dalla sua incredibile estensione. Il pubblico esplose all’improvviso in un applauso che durò tanto a lungo quanto il loro silenzio precedente. Janet continuava a cantare imperterrita come se fosse in un altro pianeta abitato da lei sola e noi continuammo a suonare guidati dalla sua voce. Ci furono cambi di tonalità e virtuosismi difficili da seguire con la voce ma Janet era come posseduta dalla musica e riuscì a fare più di quanto ci saremmo mai aspettati. Usava la sua voce come un vero strumento musicale; in modo illimitato, infinito, non sapevi mai cosa sarebbe uscito dalla quella splendida bocca nell’istante successivo. Ci divertimmo come matti quella sera e il pubblico impazzì per noi, non potevamo smettere di suonare nemmeno un minuto che subito ci veniva richiesto urlando di continuare. Nessuno stava più seduto al proprio tavolo, erano tutti in piedi ad applaudire e a muovere i propri corpi dolcemente. Continuammo fino a notte inoltrata instancabilmente, trovando l’energia nell’apprezzamento generale con una quantità spropositata di adrenalina che ci circolava nel corpo. A fine serata eravamo sudati fradici, senza più maglietta ma con tanto amore nel cuore: amore per la musica, amore per la gente, amore per la notte, amore per il mondo.
Quella sera fu l’inizio della mia nuova vita, l’inizio di una grande storia d’amore che portò alla nascita di tre figli e l’inizio di una carriera ventennale che portò all’incisione di innumerevoli dischi.
Quella sera il locale cambiò nome, nessuno lo avrebbe mai più ricordato come il Molly’s, da quel momento in poi tutti cominciarono a chiamarlo The Home Of Jazz.