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Conflitti in Africa: un punto su Mali, Sud Sudan e Nigeria

Creato il 30 maggio 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

Peacekeeping - UNMIS

di Danilo Giordano, Giuseppe Dentice, Maria Serra

Nate spesso come conflitti locali, etnici-tribali e per l’accesso alle risorse, dalla maggiore o minore intensità e con le evidenti ricadute a livello regionale, le guerre in Africa hanno negli ultimi anni assunto un carattere sempre più internazionale a causa del coinvolgimento militare e umanitario di attori esterni, per lo più Paesi occidentali. Dall’Africa sub-sahariana fino ad oltre il cuore del Continente, si estende un arco di instabilità dovuto alla presenza di numerosi gruppi militari e paramilitari, peraltro sempre più interconnessi con il network terroristico qaedista, che sta imponendo un generale ripensamento delle strategie di mantenimento della pace e della stabilità non solo alle organizzazioni internazionali impegnate nella tutela  della sicurezza collettiva ma anche ai singoli Paesi, i quali – anche per la protezione dei propri interessi nazionali – sono indotti ad agire spesso (ma non sempre) di concerto fra loro. Anche se in numero minore rispetto al picco raggiunto nel corso degli anni Novanta, sono numerosi i conflitti africani che provocano ogni anno migliaia di morti. Si fa pertanto qui di seguito un punto della situazione di tre di queste guerre, che per un verso o per l’altro, stanno impegnando e impegneranno nell’immediato futuro anche i Paesi occidentali.

MALI

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A due anni dall’inizio di una guerra civile che sembrava incamminarsi verso una soluzione positiva dopo l’intervento francese nel Paese nel gennaio 2013, si sono riaccese le tensioni nel nord del Mali. L’occasione è stata la ripresa degli scontri fra l’esercito regolare di Bamako e i ribelli tuareg del MNLA (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) e del MMA (Movimento Arabo dell’Azawad): secondo il Primo Ministro Moussa Mara «l’attacco di Kidal è stata una dichiarazione di guerra». L’escalation di scontri tra esercito e ribelli tuareg, avvenuti tra il 17 e il 21 maggio, ha causato una cinquantina di vittime tra le forze governative. I militari sono stati costretti ad abbandonare le proprie posizioni a Kidal, ricaduta in mano ai gruppi antigovernativi così come la città strategica di Menaka, nella regione di Gao. Secondo Moussa AG Attaher, portavoce di MNLA, i gruppi tuareg controllerebbero anche Aguelhok, Anefis, Tessalit e Anderamboukane, in sostanza l’intero territorio del nord.

Al momento gli scontri sono stati interrotti in virtù di un accordo di cessate il fuoco, firmato il 23 maggio scorso, mediato dall’Unione Africana. Nel tentativo di riportare la calma nel Paese il Presidente Ibrahim Boubacar Keita è intervenuto in diretta tv con un discorso alla nazione in cui richiamava l’unità maliana e delineava una doppia strategia nella quale parallelamente alla prosecuzione di negoziati ufficiali con i separatisti del nord si sarebbe perseguito un piano di securitizzazione del territorio e di lotta ai terroristi.

Secondo il Premier l’attacco nel nord è solo l’ennesima provocazione dei gruppi armati tuareg e di altri movimenti jihadisti più o meno legati al-Qaeda come HCUA (Alto consiglio per l’unicità dell’Azawad), al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), Ansar al-Dine e MUJAO (Movimento per l’Unicità e il Jihad in Africa Occidentale). Le milizie qaediste e i gruppi tuareg – quest’ultimi ufficialmente impegnati nei negoziati di pace col governo centrale a Ouagadougou, in Burkina Faso – controllano di fatto ancora tutto il territorio settentrionale contando anche sugli scarsi controlli lungo i confini dei Paesi vicini (Mauritania, Algeria e Niger, soprattutto) per lanciare attacchi e azioni destabilizzanti contro le forze militari franco-africane impegnate nella messa in sicurezza del territorio. A seguito dei fatti di sangue di Kidal si è dimesso il Ministro della Difesa del Mali, Soumeilou Boubeye Maiga: al suo posto, riferisce l’agenzia di stampa DPA, è stato nominato l’ex Comandante dell’Aerounautica, Mba Dao.

La ripresa delle violenze nel nord del Mali rappresenta un campanello d’allarme anche per la Francia che per prima si era mossa all’interno di questa crisi africana attraverso l’Operazione Serval, intervento coadiuvato dalla MINUSMA, la task force delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Paese. Se da un lato si fanno sempre più incessanti le proteste della società civile maliana, scesa in piazza il 21 maggio scandendo slogan anti-francesi, dall’altro Parigi nel ribadire il proprio impegno militare deve far fronte alla regionalizzazione della questione e alle implicazioni della lotta al terrorismo su scala regionale. Infatti al fine di meglio contrastare i fenomeni terroristici di stampo jihadista, il Colonnello Bertrand Lavaux, a capo del quartier generale dell’Operazione Serval a Gao, nel nord-est del Mali, ha spiegato che «il comando verrà trasferito da Bamako a N’Djamena, in Ciad» facendo diventare la presenza militare francese un presidio permanente nella lotta al terrorismo: 3.000 uomini, soprattutto forze speciali e Legione Straniera, droni, elicotteri saranno impegnati insieme ai droni e ai soldati statunitensi, dislocati tra Ciad, Burkina Faso e Niger, a sorvegliare e a sventare l’insorgere di nuovi focolai qaedisti nonché di arrestare e, possibilmente, sconfiggere gli insorti.

Intanto anche gli Stati Uniti hanno chiesto attraverso Jen Psaki, portavoce del Dipartimento di Stato, «l’immediato rilascio di tutti gli ostaggi» e hanno invitato «le parti a evitare violenze o qualsiasi azione che possa mettere a rischio i civili». Come sottolineato da Washington, la perdita del cosiddetto Azawad aprirebbe il rischio concreto di favorire l’insorgere di un arco di instabilità che si estende con continuità territoriale dal Maghreb al Golfo di Guinea.

SUD SUDAN

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L’ultimo nato della scena internazionale sta affrontando da lungo tempo una difficile situazione di instabilità interna. Se all’indomani del referendum che nel gennaio del 2011 ha sancito l’indipendenza di Juba da Khartoum il principale problema dei nuovi governanti è stato quello di ristabilire rapporti durevoli e pacifici con il Sudan, sullo sfondo è rimasto intatto il contestato nodo del petrolio quasi totalmente situato nei territori sud sudanesi della regione di Abyei ma inutilizzabile se non attraverso le infrastrutture di proprietà del governo sudanese.

Da diversi mesi a questa parte le sfide alla stabilità e all’ordine provengono dall’interno: le minacce maggiori provengono da una lotta di potere a carattere etnico tutta interna al SPLA (Sudan People Liberation Army) – il partito/movimento che ha condotto la lotta per l’indipendenza del Sud Sudan –, tra l’attuale Presidente Salva Kiir (di etnia dinka) e il suo ex numero 2 Riek Machar (appartenente ai nuer). La prima singolarità sta proprio nell’ingombrante presenza di quest’ultimo, il quale è stato dimesso dalla sua carica di vice Presidente da Salva Kiir dopo aver dichiarato che avrebbe partecipato alle elezioni presidenziali del prossimo 2015. Da quel momento in avanti le divergenze tra i due, senza escludere le accuse di corruzione rivolte dall’establishment del SPLA al Presidente Kiir, sono diventate sempre più marcate, sino a sfociare, la notte del 15 dicembre 2013, nell’annuncio in diretta televisiva di un tentato golpe compiuto dalle forze fedeli a Machar. La dinamica di quanto avvenuto quella sera non è molto chiara, ma il presunto colpo di Stato sarebbe stato scatenato dalla volontà di Kiir di isolare Machar e la sua tribù di appartenenza dalla vita politica nazionale. Il maldestro tentativo di discredito ha scatenato una serie di scaramucce che si sono trasformate in un rincorrersi continuo di regolamenti di conti, esecuzioni sommarie, omicidi mirati e massacri indiscriminati: la notizia dei disordini si è diffusa a macchia d’olio in tutto il Sud Sudan e i vecchi rancori tra le due principali comunità sono esplosi, non soltanto nella capitale Juba, ma anche alla periferia del Paese, soprattutto laddove, durante i lunghi anni di guerra civile, si erano già verificati scontri tra le varie componenti dell’SPLA.

Quello che avviene in Sud Sudan è quindi uno scontro di potere interno al partito-nazione ma risulta facile a Kiir e Machar cercare di polarizzare il consenso attorno alle proprie figure, facendo appello alle rispettive famiglie etniche: lo stesso Kiir, ad esempio, il 24 aprile, ha sollevato dall’incarico il Capo di Stato Maggiore dell’esercito, Generale James Hoth Mai, e il Capo dell’intelligence militare, Generale maggiore Mac Paul Kuol, rei di appartenere ai nuer, sostituendoli con due suoi fedelissimi appartenenti alla sua stessa etnia.

Dal punto di vista militare le schermaglie tra le due fazioni si sono concentrate soprattutto attorno alla città di Malakal, capitale dell’Upper Nile, e Bentiu, capitale dell’Unity, entrambi Stati ricchi di petrolio che durante questi cinque mesi di conflitto sono passati di mano diverse volte: a Bor, capitale del Jonglei, la popolazione locale dinka ha preso d’assalto la base dell’ONU, in cui si erano rifugiate circa 5.000 persone nuer, causandone la morte di almeno 60. Dal punto di vista umanitario la giovane nazione sud sudanese è in una situazione catastrofica: secondo l’ONU le violenze hanno portato alla fuga di più di 1,3 milioni di persone, mentre oltre metà della popolazione necessiterebbe di assistenza umanitaria.

Ad oggi, dopo cinque mesi di conflitto, sono stati siglati due accordi di pace, ma entrambi sono stati sconfessati nel giro di poche ore. L’ultimo accordo è stato firmato il 9 maggio scorso, nella sede negoziale dell’Intergovernmental Authority on Development (IGAD) ad Addis Abeba: Salva Kiir e Rieck Machar sembravano aver trovato un’intesa risolutiva alla crisi ma nuovamente si è tramutato il tutto in un nulla di fatto. Firmato sotto la forte pressione della comunità internazionale – che nel frattempo aveva cominciato ad attuare provvedimenti sanzionatori nei confronti di alcuni dei responsabili degli episodi più sanguinosi del conflitto e aveva minacciato di toccare gli interessi di entrambi i contendenti –, il documento prevedeva un’attuazione immediata di un cessate il fuoco, la collaborazione con l’ONU per portare aiuto alla popolazione civile, la formazione di un governo transitorio di unità nazionale e, infine, l’inclusione nei negoziati di pace di tutti gli attori sud sudanesi interessati (e dunque non le sole parti in conflitto). Ma l’accordo è nato già menomato perché avrebbe dovuto essere negoziato dai due leader in un confronto diretto e, invece, è stato discusso separatamente dai mediatori con i due interessati, così come separatamente sarebbero state apposte le firme. Il futuro del Paese africano sembra tutt’altro che deciso: mentre ulteriori passi per gli accordi di pace vengono bloccati a causa del rifiuto della delegazione governativa di accettare la ritirata delle truppe straniere sul proprio territorio, Kiir ha già annunciato che le elezioni presidenziali previste per il 2015 saranno spostate al 2017 o 2018.

NIGERIA

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La Nigeria del Presidente Goodluck Jonathan si trova dinanzi ad un bivio fondamentale della propria storia: da un lato rischia di diventare, un po’ a sorpresa, il punto di riferimento del continente africano dal punto di vista politico, dall’altro di ritrovarsi invischiata nell’ennesimo conflitto a carattere religioso/settario che ha già colpito altri Stati africani. Un importante passo in avanti è stato compiuto il 6 aprile scorso quando la Nigeria è diventata, ufficialmente, la più grande economia dell’Africa: lo ha annunciato Yemi Kalele, Capo dell’Ufficio Nazionale di Statistica, specificando che adesso il PIL nigeriano è pari a circa 510 miliardi di dollari, contro i 370 miliardi di dollari del Sudafrica. Nonostante l’economia nigeriana sia cresciuta al ritmo del 7% annuo durante la scorsa decade, questo impressionante balzo in avanti è frutto, soprattutto, di un aggiornamento delle modalità di calcolo: adesso il PIL include settori mai inseriti nel conteggio, come le telecomunicazioni, l’information technology, la musica, le vendite online, l’industria cinematografica.

Ciononostante il Paese rimane segnato dall’insicurezza e dalla paura di nuovi attacchi terroristici da parte di Boko Haram, il gruppo estremista islamico, guidato da Abubakar Shekau, che ha come obiettivo quello di distruggere tutto ciò che rappresenta “la modernità e il mondo occidentale”, e che agisce, in particolare, nelle regioni settentrionali della Nigeria. Il precipitare della situazione ha costretto il governo federale a decretare dal maggio 2013 lo stato di emergenza in tre Stati del nord-est (Borno, Yobe ed Adamawa). Dall’inizio dell’anno sembra che Boko Haram abbia compiuto enormi progressi dal punto di vista strategico, poiché i suoi attacchi si succedono ad una velocità incredibile e con una sempre maggiore capacità di fuoco. Il gruppo fondamentalista, inoltre, sembra aver esteso il campo dei suoi nemici, dato che ha sempre dichiarato di voler istituire un califfato islamico nel nord-est della Nigeria, mentre i feroci attacchi degli ultimi mesi sono stati diretti indiscriminatamente anche contro i musulmani. L’avvenimento che ha calamitato più di tutti l’attenzione è stato il rapimento di oltre 276 studentesse, avvenuto la notte tra il 14 ed il 15 aprile a Chibok nello Stato di Borno. Nonostante l’opinione pubblica mondiale si sia sollevata e abbia sollecitato in tutti i modi la liberazione delle giovani studentesse, le autorità di Abuja non sono state ancora in grado di ritrovarle nonostante da alcuni giorni circolino indiscrezioni di stampa circa la possibilità che la gran parte di loro sia stata portata all’estero (Ciad e Camerun), mentre le più grandi sarebbero state date in sposa ai loro rapitori.

Sebbene il governo nigeriano continui a dichiarare che sta vincendo la guerra contro i terroristi, che in poco tempo Boko Haram sarà sconfitto e che il nord del Paese sarà definitivamente pacificato, il Presidente Jonathan sembra più interessato a varare leggi draconiane contro gli omosessuali e a dividere, con gli altri membri della famiglia, le ricchezze del Paese. Intanto il governo degli Stati Uniti, attraverso la portavoce del Dipartimento di Stato, Marie Harf, ha reso noto di aver contattato la controparte nigeriana per offrire il proprio aiuto nella ricerca delle ragazze scomparse: l’azione statunitense dovrebbe concretizzarsi nell’invio di militari e di droni di sorveglianza che partirebbero dal Niger e dal Ciad, dove sono giunte 86 militari del gruppo dei marines incaricati di fornire supporto alle truppe del Paese africano. In realtà l’assistenza USA alla Nigeria, soprattutto in termini di sicurezza e di counterterrorism, va avanti da alcuni anni ma solo dal 2012 Washington porta avanti un programma incentrato sull’addestramento e la formazione dei militari nigeriani per prevenire gli attacchi da parte dei terroristi.

Nel frattempo i Presidenti di Nigeria, Ciad, Camerun, Niger, Mali e Benin si sono incontrati il 17 maggio scorso a Parigi, sotto la supervisione di François Hollande: proprio il leader francese ha evocato la costituzione di un piano globale-regionale a medio-lungo termine per l’eliminazione definitiva della minaccia costituita da Boko Haram. Questo summit rappresenta un’importante presa di coscienza da parte della comunità internazionale, sempre molto restia ad intervenire in contesti poco conosciuti. La riuscita di questa operazione non rappresenterebbe la fine dei problemi del gigante sub-sahariano: nel Paese agiscono ancora gli attivisti del MEND (Movement for the Emancipation of the Niger Delta) che si oppongono allo sfruttamento delle risorse petrolifere da parte delle multinazionali straniere, mentre sono numerose le controversie tra le diverse etnie che spesso sfociano in piccole guerre locali.

Conflitti Africa
Mappa dei conflitti in Africa (maggio 2014) - © BloGlobal-OPI

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Photo credits: Un Library, AFP, Reuters

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