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“Contiamoci e partite”. Ovvero perché lo Stato italiano non conosce nemmeno se stesso

Creato il 16 giugno 2014 da Capiredavverolacrisi @Capiredavvero

Venerdì scorso il Consiglio dei ministri si è riunito per varare l’attesa riforma della Pubblica amministrazione promessa dal Governo Renzi. Doveva essere una “rivoluzione”, aveva avvertito il premier, ma per ora non le assomiglia affatto. Ci vorrà tempo prima di giudicare il prodotto finale, visto che molte delle misure più significative saranno sottoposte al Parlamento sotto forma di un Disegno di legge delega che quindi richiederà mesi per essere approvato. Intanto, però, si possono giudicare alcune delle “misure urgenti” prese per decreto.

Il comunicato sul sito web di Palazzo Chigi recita: “Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente, Matteo Renzi, ha approvato misure urgenti per la semplificazione e per la crescita del Paese”. Tra queste spicca la “ricognizione degli enti pubblici” e la “unificazione delle banche dati delle società partecipate”. Avete letto bene: il Governo dello Stato italiano, nel 2014, cioè a 153 anni dalla sua fondazione e a 5 anni di distanza dall’inizio della grave crisi economica che sta investendo il nostro Paese, approva “misure urgenti” per compiere una “ricognizione degli enti pubblici” e delle società partecipate dagli stessi enti. Detto altrimenti: nemmeno il Governo sa davvero quanti siano gli enti pubblici italiani, quindi sarà bene iniziare a contarli.

Iniziare a contare? Curioso si sia aspettato il giugno 2014 per farlo. E non solo perché uno Stato di diritto che si definisca tale dovrebbe avere da sempre contezza delle proprie propaggini e di come utilizza i soldi del contribuente. Dal 2013, per esempio, lo Stato italiano paga uno stipendio di 258mila euro lordi ogni anno a Carlo Cottarelli, stimato economista del Fondo monetario internazionale, rientrato un anno fa in Italia per ricoprire il nuovo incarico di “Commissario alla Spending review”, che in italiano vuol dire Commissario alla Revisione della spesa pubblica. Dopo un anno di analisi, studi e slides presentate in Parlamento sui possibili tagli alla spesa pubblica, davvero c’è ancora bisogno di decidere per decreto di mappare gli enti pubblici italiani?

Prima del Governo Letta che nominò il Commissario Cottarelli, anche il Governo dei tecnici guidato da Mario Monti aveva fatto ricorso alla stessa formula “Spending review”. L’espressione in lingua inglese, secondo lo spin del professore bocconiano, doveva essere il fiore all’occhiello del suo esecutivo, il simbolo di una presa di distanza dai “tagli lineari” del governo Berlusconi che lo aveva preceduto. Così nel luglio 2012 – due anni fa, quindi – un Consiglio dei ministri approvò un decreto legge sulla Spending review e ovviamente nominò un Commissario ad hoc per seguire il dossier, lo stimato Enrico Bondi. L’analisi della mastodontica spesa pubblica italiana quindi prese il via, con l’obiettivo dichiarato di trovare subito le risorse per sventare l’aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento. Due anni dopo, a che punto siamo? L’Iva è aumentata al 22 per cento, deprimendo ulteriormente i consumi degli italiani, e il nuovo Governo Renzi approva “misure urgenti” per cominciare a contare gli enti pubblici e le società partecipate.

Se ora state pensando che prendere in giro il contribuente sia un vezzo dei governi della Seconda Repubblica, ricredetevi. Nella Prima Repubblica l’andazzo era identico. E’ sufficiente scorrere l’agile studio dell’economista Nicola Rossi, dell’Università La Sapienza di Roma, sulla Spending review in Italia. “Il 26 gennaio 1971 – scrive tra l’altro Rossi – Mario Ferrari Aggradi, ministro del Tesoro del primo Governo Colombo, presentava al Parlamento il suo Libro bianco sulla spesa pubblica. Un’ottantina di pagine (oltre agli allegati) redatte ‘affinché la collettività italiana possa assolvere a quei compiti di civile critica che è propria degli ordinamenti democratici’”. Un Libro Bianco chiuso da “sintetiche ‘considerazioni conclusive’ in cui si pone, con inusuale schiettezza, il tema della ‘lievitazione di spesa, cui non corrisponde un effettivo incremento nella quantità o nella qualità dei servizi prestati’. E si auspicano ‘moderne forme di controllo dell’azione amministrativa, destinate a stimare in quale misura i mezzi impiegati sono proporzionati agli obiettivi che si perseguono… e se l’attività dell’Amministrazione si rivela in grado di soddisfare le esigenze che l’hanno determinata’. In breve, quella che oggi chiameremmo una spending review”. Era il 1971 quando da Roma si cominciò ad annunciare la necessità di quantificare i costi della macchina pubblica. Nel 2014 stiamo ancora qui ad approvare le “misure urgenti” per farlo.


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