A distanza di qualche anno dal via libera alla sua commercializzazione in Italia, si riaccende il dibattito sulla pillola dei cinque giorni dopo, alias Ellaone, un contraccettivo di emergenza da assumere entro 120 ore da un rapporto sessuale a rischio.
Vale la pena fare un rapido excursus. Dopo un iter burocratico a dir poco travagliato – tre anni di rimpalli tra commissioni parlamentari, Consiglio superiore di sanità e Agenzia italiana del farmaco (Aifa) -, nell’aprile 2012 la pillola arriva finalmente nelle farmacie italiane. Ma quello che può sembrare un successo, nonostante il clamoroso ritardo rispetto alle decine di Paesi in cui è già in uso, cela un inghippo a scapito della salute delle donne: sarà possibile acquistarla con prescrizione medica, recita il verdetto finale dell’Aifa, solo dopo aver effettuato un test di gravidanza ematico con esito negativo. Questo, in sostanza, il dazio da pagare a quell’ala parlamentare che, supportata dal Vaticano e dalle varie associazioni di medici prolife, accusa Ellaone di essere un farmaco abortivo e non anticoncezionale nonostante il suo principio attivo (ulipristal acetato) abbia l’effetto di ritardare o inibire l’ovulazione. Si arriva così all’assurdo di rendere quasi inutile la sua entrata in commercio. Più è tempestiva l’assunzione della pillola, maggiore è la sua efficacia, ma i tempi tecnici che intercorrono tra il rapporto a rischio e l’acquisto del farmaco vengono allungati dal test (e dalla ricerca di un medico non obiettore), scoraggiando qualsiasi donna a ricorrervi. Va anche notato che l’Italia è l’unico Paese al mondo in cui l’acquisto di un contraccettivo di emergenza viene subordinato all’esclusione di una gravidanza.
Ma veniamo a oggi. L’Unione europea, dietro parere dell’Agenzia europea del farmaco, ha decretato in questi giorni che Ellaone può essere acquistato in farmacia senza prescrizione medica. Il che, tradotto in Italia, elimina anche il test di gravidanza. La reazione, oggi come ieri, non si è fatta attendere: alle invettive della Pontificia accademia per la vita si sono unite le associazioni di medici e farmacisti cattolici che gridano all'”aborto facile” (in sostanza all’omicidio) e annunciano una causa legale minacciando anche di fare obiezione di coscienza. C’è da scommettere che, come tre anni fa, tutto ciò approderà in parlamento, come se fosse competenza della politica discutere le evidenze scientifiche.
Perché è chiaro che non può esistere una “medicina cattolica” il cui nome è già un ossimoro. La medicina ufficiale non può essere mediata dal dogmatismo, altrimenti perde l’attendibilità oggettiva che contraddistingue ogni branca della scienza. Lo sanno bene gli oscurantisti nostrani, che pretestuosamente le attribuiscono un valore etico che non ha. Il fine, come sempre, è quello di limitare la libertà di autodeterminazione dell’individuo – e nel caso in particolare della donna – sulla base dei “principi non negoziabili” stabiliti dalla loro chiesa. Non ci sarebbe neanche bisogno di ricordare, in un Paese normale, che più è diffusa e accessibile la contraccezione di emergenza, minore è il numero dei ricorsi all’interruzione di gravidanza, a tutto vantaggio della salute fisica e psichica delle donne.
Niente di cui stupirsi in Italia, ma in questi giorni segnati dall’orrore per il sanguinario attacco fondamentalista a Charlie Hebdo poteva aleggiare la speranza che i cattolici oltranzisti nostrani, improvvisati sostenitori della libertà al grido “Je suis Charlie”, avessero almeno letto l’invettiva del suo fondatore, François Cavanna, contro i proseliti di tutte le religioni: «Voi, oh, tutti voi non rompeteci i coglioni! Fate i vostri salamelecchi nella vostra capanna e chiudete bene la porta». Libertà non è solo quella di pensiero e di parola. Libertà è poter decidere della propria vita. E chi dice di sostenerla condannando le stragi nel nome di un dio altrui mentre nega il diritto di scelta nel nome del proprio, mente.
Cecilia M. Calamani