Anna Lombroso per il Simplicissimus
Sempre un cielo corrucciato e grigio, niente musica, nemmeno le canzoni degli operai sull’impalcatura o delle belle voci di donne che rifanno i letti, niente giochi di bambini..me la immaginavo così, buia e silenziosa salvo per il ruggito dell’oppressione e il crepitare dei fucili la dittatura.
Invece mio papà mi raccontava che malgrado quella tremenda cappa, sotto quella feroce nuvola nera, malgrado quel nascondersi, scappare sempre, cambiare nome, dentro quella giacca di velluto verde che teneva freddo d’inverno e caldo d’estate, che aiutava a farsi riconoscere anche troppo, se era diventato il comandante dalla giacca verde. Che anche se si incontrava con la sua donna amatissima e trepidante e con quel suo bambino biondo appena nato, di rado e di sfuggita, come clandestini, come malfattori come adulteri, chè sul documento falso il signor Cesare Landi nato a Bari commerciante di granaglie era celibe, e così si era sfilato la fede che aveva lasciato un solco sottile sull’anulare sul quale ogni tanto passava le dita come per ricordare. Malgrado tutto quel dolore, tutte quelle morti, malgrado si sapesse cosa succedeva, malgrado si avesse cognizione di dove erano finiti lo zio Romano, la Zia Roma e le cugine Esther e Tina o il cugino Sandro, malgrado certe cene fossero fortunose fatte solo di una fetta di polenta senza nemmeno passarla sull’aringa appesa al filo, malgrado spesso si dormisse in vasca da bagno avvolti nell’impermeabile , e spesso non si dormisse proprio con la nostalgia di quelle insonnie animate a leggere i libri che li avevano resi liberi dentro e ribelli.
Malgrado tutto questo si immaginava come sarebbe stato caldo il sole e blu il cielo, come sarebbe stato bello amarsi, come sarebbe stato felice e pieno godersi il riscatto che era si dai fascisti e dallo straniero, dall’ignominia e anche dalla vergogna di avere subito l’oltraggio di una regime infame, assassino, corrotto e ladro, rozzo e feroce, che aveva tappato le bocche, condannato alla paura, alla diffidenza e alla delazione, oltre che alla fame, che aveva portato in guerre lontane e interne, fatto morire gente sconosciuta e amici con le scarpe di cartone nella neve e aveva consegnato fratelli al boia. Sì, sarebbe stata bella la libertà perché era il sogno realizzato di affrancarsi dal regime e dall’occupazione dello straniero perché deve essere straniero nella vita civile e democratica il profitto, la sopraffazione dei pochi sui molti, della ricchezza rapace sui bisogni e sui diritti.
Si sarebbe stata bella la libertà fatta di giustizia, piazze piene di gente che applaude alla sua vittoria, scuole piene di ragazzi che imparano la storia di un paese antico e giovane, giardini pieni di vecchi sereni seduti sulle panchine a leggere giornali liberi che raccontano la verità, fabbriche dove si lavora sicuri e garantiti, con salari buoni e dignitosi per comprarsi la casa e far studiare i figli, e biblioteche piene di poesia e la domenica andare al cine a vedere la magnani che non muore crivellata di colpi ma canta quanto sei bella Roma e poi belle campagne coi filari disciplinati e il grano che vien su mica bagnato di sangue e il mare pulito pieno di pesci belli grassi e treni per viaggiare mica per essere portati chissà dove a morire e musei pieni di bellezza che ci ricorda sempre che siamo uomini e possiamo diventare dei quando diamo forma alla bellezza e al pensiero e città dove la gente si saluta la mattina nella nebbia perché è bello andare a lavorare non più schiavi.
Erano meglio di noi quei ragazzi scriteriati che avevano fatto l’Italia e quei ragazzi che guardavano in faccia il sole e la morte, impauriti ma decisi, delicati ma forti. Temevano del fascismo e di quello che aveva malignamente e velenosamente edificato quel pessimismo remissivo, quello stare da parte, quello stare a guardare, quel preferire non sapere, quel “qui si lavora non si fa politica” come era scritto sui cartelli negli uffici pubblici. Avevano ragione di temere quella forma di fascismo entrato nell’autobiografia nazionale, quell’attitudine negativa e disperata perché se anche esprime una condizione di sconfitta, contribuisce nei fatti a perpetuarla: perché il pessimismo e in una certa misura anche il suo contrario, l’ottimismo, sono in fondo lo stesso atteggiamento, pensare il ruolo della politica come qualcosa di differente e di staccato dalla storia, per cui quando la storia è “in ebollizione” si mette “alla testa” del movimento (ma in realtà crede o si arroga il diritto di farlo, dato che non ha fatto nulla per suscitarlo), e quando la storia “stagna” cade nell’autocommiserazione e nella letargica attesa che i bei tempi si decidano a tornare, un giorno, radiosi. Avevano ragione di lottare contro la convinzione alimentata ad arte che non c’era alternativa al fascismo e al capitalismo che lo aveva guidato in politiche distruttive, inique, che avevano rafforzato ceti e caste intrise di tracotante potenza indirizzata alla sopraffazione, alla corruzione, all’illegalità, alla licenza per pochi e all’umiliazione per tutti, alla disuguaglianza per la quale rari diritti diventano favori esclusivi, all’ingiustizia che rafforza le leggi su misura per i potenti e i loro affiliati e che penalizzano la cittadinanza, alla distribuzione arbitraria dei beni che da comuni diventano esclusivi.
Mio padre coi suoi begli occhi chiari che avevano il coraggio di guardare lontano, proprio come quelli del mio amore, i suoi compagni gioiosamente temerari, mia mamma che faceva la staffetta in quella bella ridente campagna veneta con un piccolo bambino per mano così biondo che i tedeschi la lasciavano passare, le sue amiche belle e sfrontate nell’esigere con la libertà la loro autodeterminazione, proprio come sento anche io, sapevano che la strada era lunga, che la resistenza non sarebbe finita nel giorno luminoso della liberazione.
Sapevano che la democrazia cui aspiravano si doveva rinnovare e alimentare e difendere e restarne innamorati. Che il fascismo è una forma brutale della sopraffazione del profitto, della potenza del denaro, del perpetuarsi dell’egemonia dell’avida accumulazione sui bisogni e sui diritti. E che a un despota era possibile ne succedesse un altro con lo stesso incarico di cancellare quello che avevano conquistato, terribilmente bello e terribilmente provvisorio.
Quelli che preferiscono la lagna e il mugugno all’azione e alla ribellione, al costruire un’alternativa al dispotismo di oggi, al fascismo contemporaneo, dicono che il 25 aprile lo potremo festeggiare quando ce le meriteremo. Io personalmente non voglio assumermi colpe che non ho, mi bastano e avanzano le responsabilità che invece mi spettano e la consapevolezza che non finisco di esercitare. E che oggi significa esprimere la possibilità che l’“altrimenti” sia possibile, che la necessità non deve pregiudicare diritti e conquiste, che legalità e onesta non sono flessibili e non dove essere nemmeno la sicurezza, quella della dignità, del lavoro, del salario, dell’istruzione, del benessere, della cura se si sta male e della conoscenza per stare meglio. Che i beni comuni proprio per questo non sono in vendita, non sono trattabili come al mercato, non sono ricattabili e nemmeno possono essere fatti a pezzi, uno tutelato e uno no secondo esigenze discrezionali. Che allo stato deve essere restituita la sovranità che gli attribuiva una costituzione interrotta e ferita. E che noi dobbiamo riprendercela insieme al potere di guidare le scelte e le decisioni che ci riguardano, rimuovendo chi se ne attribuisce impropriamente la rappresentanza. Così questo 25 aprile, questa eredità, questa ricchezza del povero presente, questo investimento in chi e per chi verrà dopo di noi, è davvero nostro.