Ore 9 e qualcosa, la terra trema; vedo gli sportelli trasparenti degli armadi, blandamente accostati, aprirsi e richiudersi improvvisamente.
Mi vengono in mente pensieri che si affastellanno e conducono a scenari apocalittici.
Leggere troppo ammorba la fantasia e questa è una zona a bassissima intensità sismica. Non ci sono abituata.
“Hai lo sguardo terrorizzato” – mi dice divertito I1 quando ormai la scossa è finita. Nel tempo rapido dell’evento nessuno fiatava.
Per forza: dato che non posso correre, con il ginocchio che mi ritrovo da mesi,
mi sono vista sotto il tavolone lungo e pesante intorno a cui eravamo seduti in riunione, circondata da schegge di vetro e sepolta dai faldoni dell’archivio.
Preferirei modi migliori per terminare la mia esistenza.
Leggiamo i giornali online, i tam tam rapidi delle notizie che si aggiungono,
le persone che arrivano da noi dai reparti produttivi a commentare l’intensità del terremoto.
Si prevedono scosse di assestamento in giornata. Nessun danno, solo stupore.
Mi scappa la pipì, vado verso il bagnetto dell’ufficio. Mi blocco sulla porta.
“Se c’è un’altra scossa, ricordatevi di me”.
“Ciao. E’ stato bello” – mi rispondono I1 e I2 in coro.
Faccio un altro passo, mi fermo con la porta aperta per metà: “Sarei l’unica a sopravvivere. In bagno c’è acqua.” Entro.
La soddisfazione dell’ultima parola dura tre secondi. Realizzo e torno indietro oltre lo stipite. Quando mi volto verso di loro, li trovo già pronti.
“Certo, quella del water”, esclamiamo in trio.