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Conversazioni sul vaporetto. Italiani in coda

Creato il 20 settembre 2011 da Unarosaverde

E così, dato che via terra non si poteva passare, all’attracco del vaporetto si fece subito gran folla. La barca si fermava, scaricava, caricava, ripartiva in un lungo groviglio di corpi pressati, che  estendeva e accorciava la propria coda come una fisarmonica, sotto il caldo  sole del pomeriggio. Nella calca il vaporetto imbarcava meno persone di quanto avrebbe potuto, perché tutti rimanevano stipati sul ponte e non scendevano al coperto: lo smaltimento della coda si prospettò fin da subito faccenda lunga.

Noi italiani abbiamo un pessimo rapporto con le code: le subiamo come un abuso, stimolano i nostri istinti di guerra, attivano nell’amigdala comportamenti primordiali di lotta per la sopravvivenza. Succede come quando si depone a terra una ciotola piena di pappa e i cuccioli le si avventano addosso, dimenando le codine, come se fossero passati eoni dall’ultimo pasto. Ne resta sempre fuori uno, che tenta inutilmente di infilare il muso tra la siepe dei culetti e che gira disperato tutt’intorno mugolando di strazio.

Noi italiani abbiamo sempre paura di far la fine del cucciolo escluso anche quando, consciamente, ci rendiamo conto che nella ciotola c’è pappa per tutti. Quest’estate osservavo ammirata gli inglesi in fila alla fermata dei bus: prima lasciavano scendere le persone poi, uno alla volta, salivano a bordo senza spazientirsi nemmeno se qualcuno doveva fare il biglietto e allungava l’attesa. Sabato, lungo il canale, confinata a ridosso di una transenna, mi immaginavo la stessa scena in terra straniera: nello stretto corridoio dell’imbarcadero, persone e borsoni continuavano ad ammucchiarsi il più vicino possibile all’attracco, cercando di infilarsi tra i corpi. “Permesso, permesso, scusate” e via a testa alta a guadagnarsi 30 centimetri di avanzamento. Dato che ormai avevo già mentalmente salutato il mio treno diretto ad ovest senza di me, avevo quasi tutto il tempo del mondo: lo stavo occupando ad elaborare immagini  di scudi, manganelli e bandiere e a dedicarmi allo studio dei miei simili. Insomma, mi stavo godendo la scena.

Dietro di me c’erano due ragazzine spagnole: “Que pasa?” chiedevano. Mi sarebbe tanto piaciuto sapere cosa rispondere, ma non avevo le idee molto chiare nemmeno io.  Gli spagnoli si sono indignati, noi non ci stiamo facendo una gran figura. Accanto a me una signora scrollò la testa e disse con accento slavo: “Nel vostro paese tra un po’ scoppierà la rivoluzione”. Poi raccolse le forze e con uno sguscio magistrale avanzò di due metri, mettendosi a dirigere il traffico in zona imbarco. Una delle due ragazze, preoccupata, disse che rischiava di perdere il volo di rientro e non sapeva che fare.

Un’italiana, da dietro,  le rispose secca: “Vai avanti e supera la coda”. La ragazzina spalancò gli occhi, convinta che la signora la stesse prendendo in giro ma questa continuò con convinzione granitica: “Se perdi l’aereo,  devi andare avanti”. La spagnola fece notare alla signora che molte delle persone in fila avrebbero avuto, probabilmente, motivi altrettanto validi del suo per avere fretta e che non le sembrava giusto poter reclamare uno sconto di pena. “Be’ – rispose saccente l’italiana vedendo che la ragazzina se ne rimaneva al suo posto ad agitarsi – “significa che non è vero che stai perdendo l’aereo altrimenti ti muoveresti”.

 “Che vada lei: poi io la seguo”, fece la spagnola, convinta che fosse solo un frase detta per dire. Invece la signora, senza turbamenti, le guardò sprezzanti, se ne uscì con un “andiamo”,  superò le  ragazze e cominciò a farsi largo. Le due si strinsero nelle spalle e le si accodarono poi, di nuovo ferme mezzo metro più avanti, si voltarono verso di me: “Un bel risultato”. E un altro discutibile italianissimo esempio di ineducazione civica.


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