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Copulo ergo sum!

Creato il 22 febbraio 2012 da Upilmagazine @UpilMagazine

“Anima bambina, rinchiusa in un corpo adulto”. Una definizione che tratteggia la percezione sociale della gente “normale” verso le persone con disabilità.

La persona disabile è considerata, spesso, alla stregua di un bambino con il quale occorra relazionarsi soprattutto attraverso una serie di esclusioni e fra queste, soprattutto, quella che riguarda la sua identità “sessuata e sessualizzata”. Se poi ci soffermiamo anche sul fatto che il passaggio all’età adulta, nella vita di un individuo, sia culturalmente segnato dall’esperienza del primo rapporto sessuale (qualcuno sicuramente ricorderà che nel tempo dei bordelli pubblici, era preciso dovere del padre accompagnare i figli maschi nel lupanare), ci accorgiamo ancor di più del pericoloso cortocircuito che insidia l’identità della persona con disabilità. I bambini non fanno (o almeno non dovrebbero fare) sesso, non facendo sesso non si diventa adulti.

Cortocircuito che diventa ancor più evidente se rapportato agli sforzi e agli investimenti sanitari socialmente indirizzati alla cura della “salute” delle persone con disabilità.

Se, infatti, prendiamo per buona la definizione dell’OMS (e perché non dovremmo?) che definisce la salute dell’individuo non come assenza o riparazione del danno, ma come uno stato completo di benessere fisico, psichico e sociale; se concordiamo che questo benessere passi anche attraverso la salute sessuale e se, in analogia a quanto detto prima, consideriamo quest’ultima non solo come evitamento delle malattie sessualmente trasmissibili, ma come raggiungimento di un benessere fisico ed emotivo nell'ambito della sessualità; ci accorgiamo che qualcosa nei conti non ci torna.

Stessa riflessione devono aver fatto l’Onu e il papa Giovanni Paolo II, se la prima nel 1993 ha sentito l’esigenza di affermare che “le persone con disabilità non dovrebbero essere private della possibilità di vivere la propria sessualità...” e il secondo, l'8 gennaio 2004, ha detto che: “Particolare attenzione, va riservata alla cura delle dimensioni affettive e sessuali della persona handicappata perché il disabile come e più degli altri ha bisogno di amare ed essere amato, di tenerezza, di vicinanza e di intimità”.

Bruno Tescari, disabile fisico, nel suo libro “Il kamasabile – Accesso al sesso” offre uno sguardo impietoso e dissacrante. “Mi sento offeso – scrive - e molto seccato quando nei convegni intervengono esperti vari che parlano della sessualità dei disabili…” L’autore stigmatizza l’arroganza con cui il mondo scientifico pretende di conoscere, meglio degli stessi disabili, il loro bisogni sessuali e denuncia un mondo sommerso del ricorso alla prostituzione, spesso mediato dai genitori, troppe spesso unica via a disposizione delle persone disabili, per soddisfare le proprie pulsioni.

Non solo pregiudizi, ma anche paure, inoltre, fra i fattori che rendono complessa e disagevole l'accettazione dell'esperienza sessuale del disabile donna: il timore di possibili gravidanze sostenuto dalla convinzione che da una persona disabile non possa che generarsi, per legge genetica ineluttabile, un figlio disabile e dall'idea che il compito di cura del nascituro, a prescindere, non possa essere assolto dal genitore naturale.


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