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Corrado Bagnoli: Ogni cosa è illuminata

Da Narcyso

Esce sul numero 17 di QUI LIBRI, questa mia lettura del bellissimo libro di Corrado Bagnoli.

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Ha senso, oggi, farsi domande sulla forma della poesia?  In realtà tutto il novecento non ha fatto altro che porsi questioni sulla forma dell’arte, con risultati sconcertanti per ciò che l’arte è diventata oggi, e ancora più sconcertanti per come le forme d’arte vengono percepite, oggi, dalla moltitudine, tanto da costringere gli  artisti più avveduti e sensibili a trincerarsi dietro il valore a prova di bomba di un realismo tutto da reinventare. Che cosa sia questo realismo è discorso che ci porterebbe lontano, ma certo Corrado Bagnoli ha un suo modo particolare e semplice di leggere e capire un libro di poesia, e cioè appellarsi  alla stessa semplice domanda che fanno  i bambini quando ascoltano una storia: ” io ho bisogno di capire”.

  Questo ho bisogno di capire mette in campo un procedimento che sta alla base della fruizione, e cioè  non la comprensione dell’idea ma la sua immediata attuazione attraverso la riappropriazione del senso. Il senso, dunque, non è la maschera dietro la quale l’opera d’arte si nasconde, ma il luogo della complicità tra chi legge e chi scrive, porta semiaperta attraverso cui l’opera deve necessariamente  passare perché si realizzi il suo destino.

Casa di vetro è un libro in cui si parla della storia di segni che vengono dalla vita, dettati da un istinto a voler esistere; quindi di una condizione in cui i quaderni e i fogli si rivestono di senso “sociale”; come quelli dei bambini, perché proprio in quel momento sono e resistono prima di ogni cambiamento, di ogni archiviazione. Questi fogli – segni, figli, incontri – sono quelli del pittore Pierantonio Verga e la storia raccontata è quella del suo apprendistato per imparare a vivere seguendo istinto, necessità e destino, condizioni imprescindibili per potersi dire un artista: «La linea che segue adesso è quella/ dei binari del tram: non sa altro». Ciò che dunque si avverte nel discorso di questo libro,  è una riflessione profonda a partire dall’angelo desideroso di vita di Rilke: «l’angelo non è pura luce, si manifesta/ nella forma dell’uomo, nella carne, la sua ala/ si scioglie nei giorni». La vita è probabilmente la verità che si denuda davanti alle cose, rinunciando alla maschera della forma e chiedendo la ricostituzione di un rapporto autorizzato tra la parola e le cose.

  Qual è, dunque, la vita che qui si evoca? Innanzitutto quella che precede la scrittura, riconoscibile nei risvolti sociali, storici e antropologici di una microprovincia italiana, con tutte le caratteristiche di deprivazione e potenzialità che seguirono  la guerra. Romanzo popolare quindi, godibilissimo nei passaggi in cui le umili cose, il lavoro delle braccia e i chiaroscuri di un mondo contadino di cui si è perduta la memoria, splendono di quello splendore concesso alla materia immersa nel tempo, corrosa dai chiodi del vivere e ammantata di un’ umile bellezza che commuove. Libro di ritratti, per conseguenza, che spesso ricordano la migliore tradizione della nostra letteratura, ma illuminati della luce di una poesia gentile, vicinissima alle cose che tocca e alle persone che accoglie: «Il bambino di Mario era nato così, con un piede,/ una gamba che si trascinava dietro storta/ e si portava da sempre un apparecchio di ferro,/ una corazza per tenerlo diritto, per farlo restare/ sul mondo senza cadere»… «gli altri/ non potevano nemmeno portarli fuori dalle loro/ stanze segrete: storpi, muti, facce che sembravano/ avere attraversato cataclismi e bufere, teste/ schiacciate e allungate da un vento di disgrazia,/ uomini anche loro, diceva il prete, uomini come te,/ come me». Ma anche racconto epico,  a tracciare quella linea divisoria che separa l’infanzia e l’adolescenza dal tempo dei lupi e della responsabilità, favola e destino, intuizione senza parola dei bambini e parola senza intuizione degli adulti.

  Il libro è, quindi, romanzo di formazione,  educazione sentimentale e ritratto dell’artista da giovane – non è un caso che la poetica di Bagnoli si tramuti in splendida critica d’arte, esegesi della formazione dell’artista attraverso la descrizione delle sue opere, e dichiarazione forte di una nuova poetica  che sa attingere dalla prosa per liberare la poesia dal peso, ormai insopportabile,  dei suoi pegni – Si veda come esempio di questo pensare guardando, la splendida descrizione di una natività, vero capolavoro della poesia di questi anni, in cui, partendo da uno sguardo vigile e analitico, quindi in presa diretta col fatto -  «La folla si stanca. Ha inseguito la stella, raggiunto/ la baracca appoggiata alla pietra. Tutt’intorno/ ha riempito lo spazio. Non era più notte…» – si approda al movimento, tutto interno, di un gesto smosso, che ricorda l’attrito formale e miracoloso dell’adorazione dei magi di Leonardo o lo scostarsi  nervoso e denso di conseguenze storiche della madonna del Tondo Doni di Michelangelo, ma certo con quella estrema dolcezza nel prendere in braccio il figlio che è delle madonne del Bellini: «Il manto di Maria sembra/ nascere dalla terra, confondere i suoi colori/ con i colori della pietra a cui è quasi appoggiata./ Il manto, largo per terra, si alza poi come un tronco,/ le pietre come segni di un legno morbido/ che salendo si affusola un po’. Poi, come un nodo,/ una ferita lasciata da un ramo caduto, si apre,/ si allarga di nuovo»…

  Bagnoli chiede alla poesia una poetica di arte e di vita che dia all’artista l’ingrato compito di essere poetico anche fuori dalle parole, di preservare il mondo dell’infanzia fatto di scoperte dolorose, di impeti irresponsabili verso una qualche compiutezza presente o futura, e di lasciarlo respirare, ma con naturalezza, dentro la stretta gabbia che gli adulti chiamano Letteratura.

  Egli sa benissimo, tuttavia, che questo salto di irresponsabilità e bellezza non può venire da una tragica rottura, ma da un trascorrere, da un trapassare insieme. «Qualche volta succede che gli altri ti leggano/ dentro più di quanto tu sappia fare./ E riescono a dirti dove puoi andare». Lo sguardo fondante è allora quello dell’adulto che accompagna l’allievo, del padre che traghetta i figli verso la loro autonomia, e non per ultimo, dell’allievo che sa prendere l’insegnamento come un’ occasione di bellezza, incamminandosi verso le ragioni più intime della propria arte e del proprio destino; proprio come il volto grandioso e commovente di una madonna che accoglie in sè il mistero  e lo presenta, gravido di conseguenze, al mondo.

  Alla ricerca di una suggestione che mi aiutasse a capire più profondamente il senso di questo libro,  mi sono ricordato del romanzo di esordio di  Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata. Mi sembra un’immagine appropriata, questa,  in quanto il libro di Corrado Bagnoli  si esprime nei termini di una continua rivelazione dell’Essere, declinando l’inizio della parola con la traduzione istantanea nel gesto – tema già presente nelle altre sue opere – ma qui ripreso con conseguenze più gravide, in funzione dell’incarnarsi dell’idea attraverso l’atto di una qualche forma di creazione,  in questo caso della pittura. La rivelazione investe l’essere come il momento più alto dello schiudersi del divino nella materia, la quale può dirsi di esistere solo in quanto amata e amante da un gesto che ha rinunciato al dominio del male. Le descrizioni dei quadri presenti nel libro finiscono così per coincidere con il resoconto di una nascita consapevole, cronaca semplice e discorso filosofico nello stesso tempo, essenzialmente caravaggesco, secondo l’esegesi di uno dei primi studiosi del Caravaggio,  Roberto Longhi, portatore della tesi della trasposizione, nella materia della pittura caravaggesca, di un neoplatonismo post riformista, declinato in funzione di un constustanziarsi naturalissimo e mimetizzato. Definirei quello di Bagnoli, però, un caravaggismo senza ombre, che traduce l’amor divino in rivelazione positiva, per cui anche il lato oscuro dell’essere si fa occasione di un esserci per miracolo, per ubbidienza a un  destino di accoglienza e rivelazione. Il dolore non è un’ancella del male, ma lo specchio più struggente di una riconoscenza  della creatura nell’imago del divino.

  Lo sguardo, ci dice Bagnoli, precede la parola, ed è l’unica possibilità che abbiamo, prima del discorso, di conoscerci veramente: «Io guardo e sono guardato da loro». Questo avviene in una casa che assomiglia a quella che disegnano i bambini:  casa di vetro, trasparente, capace di accogliere il senso di verità semplici: «volto, braccia nel mondo, tutto/ portato lì perché sia portato ancora,/ custodito e ritornato». E’ la dimensione interrogante della scrittura, «l’io si disfà, diventa accogliere e basta;/ mentre scrive, si fa scrivere; mentre dice, ascolta». L’io viene incontro e non aspetta l’incontro, si offre all’umano nella pretesa che l’altro, tutto l’altro da noi, sia l’occasione che ci è stata data per ascoltare e comprendere quel battito d’ali dell’angelo. Questa presenza si compie nell’istante in cui l’ Eterno av/viene, viaggio della parola verso la nostra caducità che passa e che eternamente ritorna, come parusia del divino: per «pietà necessaria, profezia inutile./ Ricominciare».

Sebastiano Aglieco

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