Nell’ultimo periodo, al contrario delle mie abitudini, ho letto un bel po’ di narrativa italiana contemporanea. L’ho fatto come se dovessi affrontare un corso di aggiornamento sullo stato della nazione. Una cosa mi è saltata all’occhio: la pressoché totale mancanza di ambizione che fa degli autori italiani i cantori di universi piccoli, spesso piccolissimi, meglio se chiusi tra le mura municipali di qualche minuscolo borgo di provincia. In pochi (quasi nessuno) sono capaci di costruire mondi, di sfidare il dominio dell’immaginazione, di confrontarsi con temi alti. Nei microcosmi provinciali di questi narratori non c’è neppure quello slancio che ha fatto grande la letteratura italiana del secondo dopoguerra, quell’andare dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande. Non mancano i talenti, le competenze, le originalità, manca il desiderio di confrontarsi con un ordine delle cose più esteso. Gli scrittori italiani di oggi sembrano affetti da una sorta di sentimento d’inferiorità, battono strade sicure, non si arrischiano sui sentieri imperscrutabili. Qualcuno si dibatte ancora nell’affannosa ricerca di un’originalità spinta all’eccesso, residuo di una certa letteratura di moda negli anni Novanta, che produce opere stucchevoli e paradossali, contraffazioni evidenti di modelli originali provenienti da altre scuole. Non so se tutto questo appartenga a quel “genocidio culturale” profetizzato da Pasolini quando parlava di neocapitalismo e omologazione, so che si tratta di uno stato di cose stabilito e preservato dal mercato editoriale, so che è una delle facce possibili del centralismo della civiltà dei consumi. A giudicare da quello che si produce all’estero direi, forse, la peggiore di tutte.
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