Prosegue la lettura di “On writing” di Stephen King. A pagina 120 si legge:
l’avverbio non è vostro amico.
Ho pensato che mi conoscesse. Adesso credo che la situazione sia migliorata (se per cinque anni non scrivi più nulla, tornano a galla le peggiori abitudini), ma leggere quello che io avevo intuito, e scritto da lui poi, è di conforto.
Secondo King l’avverbio è l’espediente dei timidi, e se decidi di scrivere questo è un lusso che non puoi permetterti.
Aggiungo una mia riflessione. Se elimini gli avverbi, sei portato a rileggere la frase almeno un paio di volte. Poi, a riscriverla. Spesso il risultato finale è migliore.
Una frase, un dialogo privati del loro -mente o muoiono soffocati tra atroci spasimi, oppure devi intervenire per dare loro un’altra possibilità. Ma non possono restare uguali.
I dinosauri non sono riusciti a evolversi, e si sono estinti (*). Ecco: certe frasi che sembrano filare come un treno a vapore grazie agli avverbi, senza di essi non hanno più ragione di esistere. Si estinguono. Perché sono zavorra, oppure sono scritti male.
L’unica possibilità che hanno di vivere è cambiare, evolversi.
Ogni tanto un avverbio può essere utile; King lo ammette nei dialoghi, ma anche qui con parsimonia.
Il mio consiglio (per quello che può valere): quando rileggi e incontri un avverbio, pensa sempre che quando lo hai posato sulla pagina eri a caccia di una soluzione facile a un certo problema nella scrittura. O andavi di fretta. Ma sbrigati ad affrontarlo di petto con l’idea di toglierlo.
La scrittura nella maggioranza dei casi ci guadagnerà.
(*) D’accordo, non si sono estinti, ma sono stati aiutati da un meteorite. Lo so, non dovrei scrivere a una certa ora della sera (tardi), perché capita di scrivere cose inesatte. Però ci siamo capiti, giusto?