Certe persone non vogliono sentire la verità naturalmente, ma questo non è un problema vostro.
Qual è il nome dell’autore di una simile affermazione? Si tratta di Stephen King; proprio lui, esatto. Qui però si appresta a concludere il discorso su come si dovrebbero scrivere i dialoghi. Il suo problema infatti, è che un mucchio di lettori statunitensi gli scrivono lettere (adesso saranno passati alle email, immagino) per lamentarsi della sua volgarità. I suoi personaggi infatti usano un linguaggio colorito, e questo non si fa. Non si dovrebbe fare.
King conferma una verità lapalissiana: la lingua del personaggio è del personaggio, e (aggiungo io) se il lettore non è d’accordo può chiudere il libro e passare all’oroscopo. Lo scrittore statunitense non si riferisce di certo alla verità con la “V” maiuscola: intende affermare che non si può costringere il personaggio a essere beneducato se non lo è. Se invece si forza la mano, si tradisce una sorta di patto che c’è tra autore, e certi (pochi) lettori. Quello che si basa sulla sincerità. Chi scrive non può inventarsi un’umanità a uso e consumo dei deboli di cuore, di quanti svengono se leggono: “Cazzo”.
Prima ho scritto “pochi” perché se un personaggio impreca, questi pochi leggeranno, arriveranno alla fine della storia e se l’autore ha svolto un buon lavoro, lo apprezzeranno.
Gli altri lettori, la maggioranza, sarà indignata, e senza terminare la lettura, prenderanno tastiera e mouse per “cantargliele”.
Che strano. Ci sono persone (e temo che siano davvero tante), che si avvicinano alla storia con il desiderio che non parli della vita. Ma dell’aria, che accarezza, solleva e via discorrendo. Quando invece incontrano spigoli, ostacoli, eccetera, si sentono traditi. Secondo me, vivono in una sorta di bolla che impedisce loro di leggere, e cercare in questo semplice gesto la bellezza della parola. Sì insomma: una storia è scritta per essere letta, dovrebbe comunicare la forza della parola. Il lettore non dovrebbe inciampare perché trova:
“Tesoro, vienimi dentro, riempimi del tuo seme!”.
È un frammento di “Penne”, tratto da “Cattedrale” di Raymond Carver. È volgare? È necessario prendere tastiera e mouse e dirgliene quattro all’autore (se fosse vivo)? Perché: “Se un bambino di dieci anni legge quella roba lì, come cresce”?
Se il lettore cade e si fa male, prima di urlare che è tutta colpa dell’autore, forse è meglio considerare un altro aspetto. Vale a dire: siccome il lettore non ha alcuna fede né fiducia nella parola, non sa nemmeno apprezzarne il valore; e scorre le righe come una specie di censore. E quando l’autore sgarra, “Zac!”, interviene subito.
In pratica: siccome non ha affatto letto, la sua attenzione si illumina solo perché c’è quella frase. Il resto: dialoghi, dettagli, personaggi, non ci sono. Succede così quando non si legge ma si ammazza il tempo e si desidera che la narrativa sia solo quello.
Un tappabuchi per le nostre giornate vuote.
Si può credere che sia colpa dell’autore. Se non avesse usato quella frase, allora…
Alt.
A ciascuno il suo mestiere, grazie. Il lettore può lamentarsi, e abbandonare un testo per le ragioni più strambe. Se legge una storia e non l’apprezza, forse nemmeno arriverà a quella frase. Forse la leggerà e la troverà mediocre come il resto e dirà: “Carver? No grazie”.
Se però legge un qualunque racconto, e l’unico fremito gli arriva dalla lettura di “Cazzo”, mi spiace, ma a mio parere c’è un problema, e riguarda appunto quel lettore. Perché non legge, non sa leggere, e l’unico compito di cui si sente investito non è abbandonare la realtà piatta che gli offre lo schermo televisivo. Bensì di “vigilare” sul buongusto.
E per arrivare a grattare via la vernice della realtà spesso è necessario essere spigolosi. Non per il gusto di colpire il lettore, ma perché la realtà è così. E se è brutta, non è colpa dell’autore, non spetta certo a lui dipingerla di rosa. Lo scopo dell’autore è raccontare una maledetta storia, che sia efficace e di valore.
Basta.