Un Mayhem del 1994, dall’elevato tasso di conflittualità e trasgressione
La notizia dell’uscita del nuovo singolo dei Mayhem non può passare inosservata, qualunque sia la vostra opinione sulla band norvegese. Erano sette anni tondi tondi che i nostri non davano alle stampe qualcosa di inedito, da quell’Ordo ad Chao datato ormai 2007 e sul cui valore artistico infuria, ancora oggi, la polemica all’interno dei più autorevoli circoli culturali del continente. Ironie a parte, a me quel disco non era dispiaciuto totalmente. Dava più volte la sensazione di essere concepito come un blocco di riff assemblati a compartimenti stagni e rimescolati un po’alla rinfusa, però tutto sommato aveva quella marcia in più, in termini di inafferrabile atmosfera malsana, che lo scialbo predecessore non aveva. Oltretutto, a differenza degli ultimi Satyricon (gruppo che non mi stancherò mai di utilizzare come parametro di riferimento per definire il declino autentico), Ordo ad Chao aveva una sua, seppur bizzarra, identità e non tentava affannosamente di inseguire qualcos’altro. Ecco, Psywar, primo pezzo del dopo-Blasphemer, fallisce proprio perché suona come un brano canonico, di quelli che potresti sentire produrre da una quantità indefinita di altri gruppi e che, se non avesse la scritta Mayhem sopra, ben pochi si metterebbero a riascoltare più di due volte. Il che mi riporta alla considerazione precedente sull’originalità del gruppo e sulla sua possibilità e volontà di produrre qualcosa che non sia semplicemente il frutto di un contratto da onorare.
I primi Mayhem possedevano quello che, secondo una certa teoria della critica musicale, può definirsi capacità di generare conflittualità e di determinare una rottura all’interno del proprio sistema di riferimento. In sostanza, i primi Mayhem riuscirono a polarizzare su di loro un intero, neonato, movimento, riuscendo non solo a rompere gli schemi dentro i confini norvegesi, ma anche abbattendo le barriere nazionali molto più di quanto siano riusciti a fare, ad esempio, gruppi come gli Immortal, o gli Emperor e i Satyricon nella prima fase della carriera. Verrebbe da dire che De Mysteriis Dom Sathanas, frutto di quanto seminato negli anni ottanta, sia il manifesto e l’ultimo disco ideologicamente legato a una precisa idea di black metal. Da lì in avanti il discorso si è spostato su cosa poteva/doveva diventare quello stesso black metal. Un discorso che ha visto partecipare i Mayhem in maniera piuttosto marginale – Wolf’s Lair Abyss e A Grand Declaration of War erano il naturale parto confuso di un gruppo alla ricerca di identità dopo la morte di Euronymous, su Chimera ho già espresso le mie perplessità e sull’imponente quantità di live usciti nei primi anni duemila, col chiaro intento di cavare il sangue dalle rape, è meglio tacere – relegati al ruolo di simbolo di un qualcosa che fu. La nera fiamma, ridotta a flebile fiammella di speranza con il disco precedente, si attenua ancora di più. Non resta che attendere il nuovo album, in cantiere da più di un anno, ma le premesse sembrano tutt’altro che esaltanti.