La domanda che dà il titolo a questo post non è retorica. Si parla tanto di divulgazione della scienza, di strategie comunicative e di edutainment.
Se restringiamo il campo alle solite esperienze di divulgazione dell’antropologia, il panorama è desolato. Alla prova dei fatti le esperienze concrete in questo ambito sono relativamente poche. Perchè?
La questione è sicuramente complessa ed è collegata alla situazione dell’antropologia in generale. Gli attori sulla scena sono il pubblico e gli antropologi, a cui bisogna aggiungere gli “intermediari”, identificati a seconda dei casi in giornalisti, organizzatori di eventi o comunicatori in generale. Cosa possiamo dire su ognuno di questi attori?
Il primo attore: il pubblico. Il pubblico è composto da persone e non solo da semplici recettori del messaggio. Significa considerare la loro età, le loro abitudini e le loro esperienze pregresse. In sostanza, la loro visione delle cose. Non si tratta solo di segmentare il target, tanto per usare un’espressione cara al marketing ma ormai in disuso in tempi di web 2.0, ma di capire chi abbiamo di fronte.
Va poi aggiunto un altro tassello: queste persone, per lo più, non sanno cosa è l’antropologia e cosa fa l’antropologo. Sempre per usare un’espressione in uso nel marketing, non ha il bisogno dell’antropologia. In quest’ottica dovremmo allora creare il bisogno, che genera la domanda e dunque l’offerta, come avviene per un qualsiasi prodotto che si compra al supermercato. Non per vendere cianfrusaglie, ma un servizio concreto e attivo. E’ possibile farlo?
Il secondo attore: gli antropologi. Un altro gruppo di persone considerato come un blocco monolitico e invece composto da figure eterogenee per indole e formazione. Le discipline antropologiche sono diverse, ma tale ricchezza non è valorizzata, soprattutto perchè gli antropologi hanno una scarsa conoscenza delle proprie possibilità in termini di contributo al vivere quotidiano.
Del resto, l’idea comune è che lo scienziato viva di cose astratte, lontane dalla vita quotidiana, e chiuso in una sua torre d’avorio. Gli antropologi non solo hanno fatto propria questa visione, ma l’hanno alimentata ulteriormente diventando autoreferenziali e chiudendosi persino ai ricercatori di altre discipline. Perchè divulgare allora?
Divulgare è un’attività percepita come difficile, fondamentalmente senza ritorno economico, e poi… significa propriamente rendere pubblico. In un sistema in cui si insegna la gelosia per i dati raccolti (sicuramente con fatica, per carità), la sola idea di rendere pubblico il proprio lavoro è quasi inconcepibile. Come dare le perle ai porci, insomma.
E qui interviene il terzo attore: i comunicatori. Altro gruppo eterogeneo, spesso non formato sulle questioni scientifiche perchè operano in un contesto socioculturale che non incentiva in tal senso. Succede che a volte adattino la notizia scientifica al loro pubblico, magari stravolgendola, ma vi sono anche bravissimi comunicatori che raccontano in modo eccezionale ciò che la ricerca scientifica è, ciò che può dare e dove può portare.
Come fare? A questo proposito mi piace quotare un paragrafo scritto da Aldo Gagliano, giornalista scientifico, su TVSpace:
Basterebbe poi fare quello che fanno in altre nazioni europee: creare dei veri e propri canali diretti tra scienziato-ricercatore e divulgatore. Sembra una cosa scontata, ma nel nostro paese non lo è. Il vantaggio sarebbe enorme per tutti. Il ricercatore può dare di prima mano la notizia corretta, può spiegarla bene, darne i risvolti sociologici ed economici, sottolineare le parti più interessanti. Il divulgatore può avere la certezza della correttezza scientifica, capire bene il nesso sia culturale che pratico, spiegarla in modo semplice e corretto al suo lettore. Il lettore finalmente sarà informato in modo “vero” e semplice, potrà valutare per se stesso e per la società la bontà della ricerca. Avrà comunque imparato “in modo giusto” qualcosa di nuovo. Sembra poco?
Mi piacerebbe andare oltre e pensare a una struttura più articolata, in cui il prodotto antropologico abbia una genesi, una produzione e una distribuzione specifica attraverso la pubblicità. Qui prendo a prestito le parole di Chris Anderson (non l’Anderson della “coda lunga” ma il fondatore delle conferenze TED – Technology, Entertainment, Design), a proposito dei processi di innovazione. E quale miglior spunto per un blog che parla di antropologia e innovazione?
L’innovazione non è più il frutto di un genio isolato, di quella figura romantica che sopravvive nel mito della scienza, ma di gruppi che si organizzano attorno a un’idea. E infatti Anderson collega l’innovazione ai crowd, comunità di persone che condividono un interesse specifico. Possono essere piccole o grandi a seconda del tipo di interesse, ma sono sempre necessarie figure capaci di apportarvi innovazione.
Ecco il video del suo intervento, dedicato alla Crowd Accelerated Innovation, cioè l’accelerazione che subisce il processo d’innovazione grazie alla condivisione della conoscenza, in particolare tramite i video diffusi nel web, una vera e propria killer application.
Le figure individuate da Anderson sono:
- il trend-spotter (osservatore delle tendenze), capace di individuare dall’inizio le innovazioni promettenti
- l’evangelist (evangelista), che sostiene appassionatamente un’idea presso altre persone della comunità
- il superspreader (superdiffusore), che trasmette le innovazioni a un circolo più ampio
- lo skeptic (scettico) che fa in modo che si discuta onestamente
- i general participants (semplici partecipanti) che compaiono, fanno i loro commenti con franchezza e imparano
Immaginiamo queste figure nell’ambito dell’antropologia: chi potrebbero essere? E come potrebbero agire?