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Cosa significa scrivere un racconto

Da Marcofre

È risaputo (o almeno dovrebbe esserlo), che chi si cimenta con la scrittura di solito inizia coi racconti. Perché c’è questa leggenda, che più o meno recita: “Sono più facili da scrivere”. Tutti sono certi di riuscirci con uno schiocco di dita.
Peccato che riescano a slogarsele senza rendersene conto.

Che sia lunga 100 pagine o 400, una storia deve avere una qualità (tra le tante): essere efficace. Soprattutto mostrare una realtà credibile, reale appunto. Altrimenti non avremo una storia, bensì una storia: in quest’ultimo caso sarà perciò una fanfaluca, o roba del genere.

Se scolpisci una statua di legno, deve esserci il legno; e questo è un materiale che coinvolge il tatto, l’occhio, persino l’olfatto. I sensi. E per ottenere la scultura saremo coinvolti noi stessi, in maniera fisica e completa.
Non il nostro spirito.

Buona parte delle storie che gli esordienti scrivono mancano del tutto della materia prima che le rende appunto storie: vale a dire la carnalità. Un’espressione un po’ particolare, con cui intendo semplicemente che i personaggi devono avere un peso, uno spessore, perché appunto fatti di carne, non di bla bla bla. E quando entrano in una stanza lo devono fare sul serio.
In un certo senso, il loro ingresso in un ambiente dovrebbe sentirsi, la loro presenza dovrebbe essere tanto reale da rendere finto, o meglio un intruso, quello che abbiamo attorno mentre leggiamo.

Non bisogna fuggire la carnalità della vita. Che sia chiaro: non è piacevole. È forse piacevole “Una mattina del cazzo” di zio Buk? No. C’è un uomo riprovevole, una povera donna, e una scrittura che rasenta la perfezione. Ideali? Sentimenti? Emozioni? Saggezza da distribuire al mondo affinché progredisca? Grandi verità sull’amore o sul genere umano? Non scherziamo: la letteratura è un affare serio.

In quel racconto breve di zio Buk manca insomma tutta la zavorra con cui gli esordienti infarciscono le loro opere credendo di scrivere. Alla fine sono soddisfatti, e proprio quello è la misura del loro errore.
Non puoi essere soddisfatto di aver scritto, ma di aver terminato la fatica; sono due cose differenti.
Provo a spiegare nella speranza di riuscirci.

La prima arriva quando tra storia e chi scrive c’è il muro delle chiacchiere, delle parole inutili, superflue. Lì non c’è altro che fantasmi e morti che vagano per un cimitero. Possono piacere a chi non frequenta davvero la realtà, e ignora come questa sia fatta di carne e sangue.

La seconda giunge quando ti sei avvinghiato alla realtà, hai lottato per far sì che il personaggio colpisca i sensi di chi legge. Quando il protagonista entra nella stanza è necessario che si senta con chiarezza (sto esagerando forse. O forse no), il pavimento vibrare sotto i piedi del lettore. Che però come tutti sanno, vive in un’altra dimensione.

Se c’è ancora qualcuno che legge domanderà: “Bene, come devo fare?”. Prima di tutto non ci sono trucchi, ricette, strategie. Lo riscrivo per l’ennesima volta (e chi legge da un po’ questo blog sbadiglierà di certo): è un affare personale.

L’unica dritta che mi sento di dare è di una banalità sconcertante. Cioè: siediti da qualche parte, taci, ascolta e osserva i tuoi simili. È di loro che devi scrivere, e devono essere veri. Reali. Ricordi? Sono fatti di carne e sangue, e se mancano questi due ingredienti, scrivi di palloncini, aerostati, e dirigibili.


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