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Cose che succedono dall’aldiqua.

Creato il 03 ottobre 2011 da Fabry2010

Cose che succedono dall’aldiqua.

Che il signor Tenerani fosse rimasto per un giorno e una notte interi nascosto sotto tutti quei cadaveri me lo aveva raccontato suo nipote al mare, mentre leccavamo coni-gelato all’ombra dell’ombrellone che ogni anno i suoi prendevano in affitto. La vaniglia ci colava sulle mani, e a me era parso d’essere tornato ragazzino con tutto quell’appiccicume tra le dita e sui contorni della bocca, ma senza che nessuno dei due avesse fazzolettini con cui potersi pulire, e niente voglia d’alzarsi e attraversare i quaranta gradi di sabbia e adiposità sonnolente per raggiungere la passerella che conduceva al bar.
Così leccavamo, cercando un ordine e un decoro nel farlo, e intanto discutevamo come due veri adulti, due adulti come si deve, di sanità, di manovre finanziarie, di sistemi scolastici, di crisi internazionali, d’inchieste, di risorse per il futuro e di cultura in generale.
I miei figli stavano in acqua da ore, da giorni praticamente, erano praticamente scomparsi nel mare per quello che ne sapevo, e mia moglie era una schiena dritta e scura semi-immobile nel bagnoasciuga, seduta a gambe raccolte su di un telo colorato, una sigaretta dopo l’altra a osservarli e intanto chiacchierare d’asili e corsi di nuoto con le altre signore della spiaggia.
“A me nel dettaglio l’ha raccontato una sola volta” mi stava dicendo il nipote del signor Tenerani, risalendo con la punta della lingua sul bordo esterno del suo polso. “Poi anche in un’infinità d’altre situazioni, per carità, certo, sai, cose che saltano fuori durante qualche discussione, ma nel dettaglio capiscimi, dettaglio, solamente quella volta lì.”
I signori Tenerani, classe 1924 (lui), e 1928 (lei), io li vedevo solo di tanto in tanto, e sempre e unicamente al mattino presto, quando a passi piccoli e raccolti si avvicinavano come si vede fare nei documentari, una coppia di vecchie e smunte zebre alla pozza d’acqua, che poi nel loro caso era il mare, senza però mai raggiungerla.
Quando arrivavano a metà spiaggia infatti si fermavano sotto il loro ombrellone, gambe e ascelle nel ristoro dell’ombra, le pelli quasi staccate dai tessuti, pelli bianche e sottili, a penzoloni, sotto le braccia. Da far pensare che sarebbe bastato l’acuto di uno strillo o un colpo di vento un po’ più obliquo degli altri a fargliele cadere a terra per sempre.
Guido Tenerani soprattutto aveva attratto la mia attenzione perché non appariva mai senza gli occhiali da sole indosso. Un paio di finti e grandi ray-ban in plastica nera che gli si posizionavano sull’attaccatura del naso come una coppia d’uccelli sulla prua rigirata di una barca, neanche fossero nati assieme.
Quando l’avevo chiesto a suo nipote, se per caso era affetto da qualche strana forma di cecità o via dicendo, lui mi aveva risposto di no, che anzi, ci vedeva benissimo, ci vedeva meglio di tanti altri. Ma quegli occhiali da sole li indossava anche in casa, anche a letto, anche al bagno, anche davanti alla televisione.
Gli era addirittura capitato, a lui, al nipote del signor Tenerani, di entrare nella stanza dei nonni poco dopo cena, e trovarlo sdraiato in pigiama, sul materasso, sopra le coperte – la moglie al fianco ma a debita distanza – nella penombra. Ray-ban inforcati e mani appoggiate sul petto, a guardare le immagini che passavano sullo schermo. Faceva impressione vederlo così, mi ripeteva ogni volta che raccontava quella scena. Pareva sempre, come dire, di entrare in una bara e trovarvi dentro un morto con gli occhiali scuri di fronte a una televisione accesa. Ti sentivi risucchiare l’aria dai polmoni. Peggio. Ti sentivi come se qualcosa di tremendamente familiare e ampio fosse venuto d’un tratto a mancare. Non fosse stato per quello schermo ti pareva fosse scomparso il mondo intero, ecco. Allora lui li salutava, o augurava loro la buonanotte, o diceva loro quello che era entrato a dire, e poi usciva quasi di fretta, quasi correndo – quasi scappando – e la prima cosa che faceva una volta fuori era andare sul balcone a respirare.
Quando ci raccontava queste cose io e mia moglie provavamo a riderci sopra cercandone il lato leggero, ma nell’anima qualcosa ci si contorceva.
A me ad esempio era andata formandosi e via via crescendo nella testa l’immagine di milioni di morti nei cimiteri di tutto il mondo, all’interno delle loro bare, sotto i nostri piedi, ognuno con una piccola televisione accesa davanti, a guardare chissà quali programmi provenienti dall’aldiqua. E questa immagine era divenuta una sorta d’occasionale ossessione, una ciclica paranoia che non la smetteva di tormentarmi.
“Nel dettaglio capiscimi” stava continuando a dire il nipote del signor Tenerani tra una leccata di gelato e un’occhiata a qualche gluteo di passaggio sulla passerella della spiaggia.
Tenevo il mio cono tra l’indice e il pollice, come tra le estremità di una pinzetta da toilette, e intanto calcolavo se la distanza che ci separava dal bar era maggiore o minore di quella che ci separava dal mare. Poi ragionavo sul fattore passerella, sulla variante acqua salata/acqua dolce e sull’opportunità di andare a prendere un fazzolettino o raggiungere il rubinetto di fianco alle docce, e, diavolo, me lo ricordavo diverso il piacere di sporcarsi le mani con un gelato sotto l’afa senza sole di un ombrellone.
Il fatto insomma era che il nipote del signor Tenerani io lo conoscevo da quando eravamo ragazzini, ma sempre e solo per quindici giorni l’anno. Quei quindici giorni nel mese di agosto durante i quali i suoi genitori e i suoi nonni venivano in villeggiatura dalle mie parti, e che negli anni erano bastati a fargli conoscere la mia migliore amica, innamorarsi di lei, fidanzarsi con lei, sposarla e infine portarla via con sé nel placido benessere della pianura parmigiana.
Ogni volta che arrivavano per le ferie, dunque, era tutto un abbracciarsi, tutto un baciarsi, tutto uno strizzarsi di mani, di corpi, d’occhi, di fianchi, specialmente tra me e sua moglie, che poi era come una sorella, e sempre davanti allo sguardo giudicante della signora Tenerani e ai ray-ban scuri del signor Tenerani, che tutto questo eccesso di confidenza tra un estraneo e la moglie del loro nipote, tutto questo esplodere d’intimità esibita, tutta questa manifestazione d’affettuosità, la ritenevano fuori luogo, se non in un certo senso di “cattivo gusto”, o addirittura – parole loro – “pericolosa.”
Io questa cosa la sapevo. E come me la sapevano mia moglie e la mia amica, e il nipote dei signori Tenerani naturalmente, e spesso anche di questo ridevamo. Anche di questo ci prendevamo gioco, talvolta. Esagerando coi saluti, facendolo quasi apposta. Quasi a voler dimostrare che i tempi erano cambiati, e che certe barriere tra le persone erano crollate, e benvenuti nel terzo millennio santiddio.
Per uno come me che aveva perso i suoi nonni fin da bambino, poi, i coniugi Tenerani costituivano una curiosa variante allo schema-classico-chiacchierata-da-ombrellone, qualcosa da arricchire con domande quali come vivessero o cosa pensassero o cosa dicessero.
Parlavano?
“Solo di tanto in tanto, e solo di che tempo fa, o di cosa hanno mangiato, o di come hanno dormito.”
E cosa mangiano?
“Vanno pazzi per le uova. Ne mangiano a valanghe. Poi la sera non dormono e se ne domandano la ragione.”
Non dormono per colpa delle uova?
“Non dormono perché sono vecchi, ma alle volte non dormono perché hanno mangiato troppe uova, sì.”
E via dicendo.
Io che chiedevo e il nipote dei coniugi Tenerani che rispondeva. I pomeriggi che passavano. Le nostre mogli in riva al mare che tenevano d’occhio i bambini. I culi in transito. Le ciabatte roventi. I caffè in movimento al bancone del bar.
“Insomma cosa ti ha raccontato?” avevo chiesto cominciando a ripulirmi con la saliva l’attaccatura delle dita.
E lì per lì lui non aveva risposto.
“Quindi?” avevo ripetuto.
Quindi ci si era andato a infilare quasi senza pensarci sotto tutti quei cadaveri, mi aveva iniziato a spiegare poi con calma. Ci si era assottigliato nel mezzo come una fetta di prosciutto in un chilo di pane, mosso da un istinto che gli diceva che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di andare a frugarci attorno. A nessuno. Tranne che a braccia disperate o a mani amiche.
Aveva sollevato una piccola pila di cadaveri, tipo due o tre corpi, e si era inserito nel varco lasciandoseli ricadere sopra tutti assieme. Lo aveva fatto in maniera che scivolassero sulla sua schiena uno sull’altro, con lui che teneva la faccia rivolta verso il suolo, affondata nei corpi in basso, così da avere le spalle e non il volto esposti a possibili occhi indagatori.
Ma non appena sotto, giusto il tempo di sentire la pressione di tutta quella carne su di sé, e gli era presa un’altra angoscia. Qualcosa di più complesso e inquietante dell’umana paura d’essere trovato in superficie. Gli era arrivata addosso la realizzazione che se c’era una fossa piena di cadaveri e cumuli di terra ammassata attorno, allora c’era anche la possibilità che qualcuno sarebbe tornato a ricoprirli.
Però non si era mosso. Era rimasto in quella posizione per un tempo che non avrebbe saputo quantificare, in attesa d’udire un incedere di passi o il secco risuonare di un ordine, seguiti dal rumore della terra che veniva gettata sulle schiene di chi gli stava sopra. C’era voluto un altro lungo intervallo, per fargli accorgere che dal punto in cui si trovava non poteva percepire altro che il battito del suo fiato sul tizio che gli stava sotto. Finché aveva smesso di sentire pure quello.
Era accaduto in quel momento ecco. Con una qualche magica e strana lentezza aveva cominciato ad accadere qualcosa. Aveva cominciato a sentire gli odori.
Dall’amalgama iniziale – “un classico odore di morte” aveva detto al nipote, come se fosse chiaro a tutti di che odore odorasse la morte – si era passati a qualcosa di più differenziato. Aveva cominciato a individuare ogni singola, elementare, impercettibile fragranza che lo circondava. E ognuna in maniera sempre più distinta.
Prima gli era arrivata alle narici una traccia di fieno e di feci animali. Un allevatore, aveva pensato, che giaceva a poca distanza da lui. Mucche da latte probabilmente. Era un afrore acuto ma non assordante, diverso da quello d’urina e feci umane che pure sentiva, e che pareva provenire da un altro corpo che gli stava accanto, poco più in basso, sulla destra. Poi si era accorto che urina e feci umane non erano una, ma che ce n’erano tante, sparse, e in una qualche indefinibile maniera differenti le une dalle altre.
Aveva riconosciuto un debole aroma di cibo emanarsi dalla camicia del tizio che gli stava sopra. Cavolo bollito. Una zuppa, forse. E si era detto pronto a barattare due dita della sua mano destra per averne anche solo un cucchiaio.
C’era un sentore di polvere da sparo e metallo a pochi centimetri di distanza dal suo volto. Terra fresca d’aratro di fianco a sinistra: un contadino. Ristagno di sudore e pecora sui vestiti di qualcun altro in alto a destra. Un pastore?
Più odorava e più percepiva i suoi sensi acuirsi. ‘Fammi annusare ancora un po’ di quella zuppa’ si era sorpreso a mormorare. E contemporaneamente aveva iniziato a distinguere anche altri dettagli, particolari assurdi, anche uditivi. Gli era parso di sentire il suono delle radici degli alberi che scendevano nella terra a pochi metri da dove si trovava, ad esempio. Poi il vibrare di una mosca intrappolata da qualche parte in mezzo ai corpi. Infine lo zampettare di alcune formiche tra i peli irrigiditi di qualche gamba.
Odore di legno e segatura alla sua sinistra. Un falegname. Tabacco in alto a destra. C’era una traccia di ghiaia da fiume che si emanava dalle scarpe di qualcuno che gli stava di fronte, accanto all’allevatore di mucche. E a non molta distanza da quello un profumo di millefoglie e rosa selvatica proveniente dai calzoni di un tizio che forse ci aveva corso nel mezzo solo poche ore prima.
‘Anch’io!’ gli era parso di sentir dire a quel punto, da ogni parte attorno a lui, ‘adesso odora anche un po’ di me!’
Finché aveva percepito un’ennesima fragranza insieme familiare ed estranea, farsi largo dal fondo della buca e raggiungerlo. E come se fosse stata la cosa più naturale del mondo aveva riconosciuto l’acqua di colonia che usava suo padre prima della guerra, ma intrisa in una pelle che non era la sua.
Da quanto tempo si trovasse lì sotto adesso non avrebbe saputo dirlo neppure lui. Gli pareva che il suo corpo non gli appartenesse più. Avvertiva la pressione di un’anca sulle costole, il contatto di una testa sul dorso di una mano, un gomito gli premeva sull’inguine, una coscia gli cozzava contro un fianco. Ma tutto come se non stesse succedendo a lui. Si sentiva in una sorta di calmo dormiveglia. In una qualche assurda e inspiegabile maniera, ecco, stava bene.
Ci avrebbe dovuto pensare un grillo chissà quante ore dopo, il singolo, timido frinire di un grillo sceso chissà come tra i cadaveri, a fargli di nuovo aprire gli occhi. Cricri. E qualcosa aveva ricominciato a ticchettargli dentro.
Aveva atteso ancora un po’, allora; poi si era appoggiato sul corpo che gli stava sotto, sentendolo quasi spezzare sotto la pressione delle sue mani, e con tutta la forza che ancora gli restava addosso si era tirato su. Gomiti e gambe e colli e braccia che gli ricadevano ai lati in un tonfo solitario. E busti e ginocchia e teste. E con loro aveva sentito gli odori, li aveva sentiti tornare a mischiarsi sotto di lui, scendere e ritirarsi nella terra, e infine scomparire.
Fuori c’era di nuovo il mondo. C’era un violento principio d’alba. C’erano vene di fumo che risalivano da un villaggio che era stato dato alle fiamme durante la notte. C’erano i bordi delle montagne come incisi sull’orizzonte. E c’erano i cumuli di terra come li aveva lasciati, immobili, ai lati della fossa.
“E quella è stata l’unica volta che me ne ha parlato nel dettaglio” mi stava finendo di raccontare il nipote del signor Tenerani, coi polsi appoggiati sulle ginocchia e i contorni delle labbra ancora umidi per il continuo passarci sopra della lingua. “Avevo diciott’anni ed eravamo nel punto in cui era successo, a quarant’anni esatti dal giorno in cui ci si era andato a nascondere, quarant’anni precisi dalla notte in cui quei cadaveri lo avevano salvato dal mondo. C’era davanti a noi questa specie di monumento, una lapide, con sopra scritti dei nomi, venti in tutto, e accanto ai nomi c’era riportato il mestiere o quello che ognuno stava facendo nel momento in cui era stato sorpreso dalla rappresaglia tedesca. Cose tipo ‘Luigi Borghini, stava dando da mangiare alle mucche nella stalla’, o, ‘Carlo Del Monte, partigiano’, o ‘Mario Ludovici, che quel giorno si sarebbe dovuto sposare’. Lui me li ha fatti leggere, e ogni tanto diceva frasi tipo che il tizio che si doveva sposare, quella mattina probabilmente si era dato dell’acqua di colonia, o cose del genere. Poi ha detto ‘manca solo il mio: Guido Tenerani in fuga tra le campagne, sulla strada di casa.’ E lì mi ha raccontato quello che era successo. Nel dettaglio.”
“Wow” avevo detto. “Wow” avevo ripetuto scuotendo la testa e desiderando udire qualunque altra cosa che non fosse il vuoto di quel wow.
“Esatto” aveva ribadito lui.
“Ed è stata l’unica volta in cui ne avete parlato” avevo aggiunto, quasi lo stessi ripetendo a me stesso.
“Nel dettaglio. Tutte le altre è rimasto sul vago. In un’occasione mi ha detto che era passato troppo tempo e non si ricordava più nulla. Quando gli ho domandato se portava gli occhiali scuri per via di quella notte si è messo a ridere e mi ha detto di no. ‘Ma no’ ha detto, ‘li porto perché mi piacciono.’ Poi però l’ho udito dire qualcosa di differente, e cioè che la penombra lo fa sentire come se si stesse preparando a tornare a casa. ‘Tornare a casa’ ha detto. Ha detto che gli da un senso di calore, di pace. E non ho più domandato.”
Intanto le nostre mogli erano risalite dal bagnoasciuga coi bambini al seguito e gli asciugamani sotto il braccio, e io avevo cominciato a domandarmi verso quale casa si preparasse a tornare, e di quale calore avesse inteso parlare.
Quando il mattino dopo li avrei rivisti avvicinarsi come si vede fare nei documentari, il signor e la signora Tenerani, una coppia di vecchie e smunte zebre alla pozza d’acqua, quella domanda sarebbe stata ancora lì, a interrogarmi.
“Voi due” aveva detto mia moglie non appena ci avevano raggiunto, trovandoci improvvisamente seri e silenziosi, “si può sapere di cosa stavate discutendo così concentrati?”
Era stato il nostro cricri.
“Cercavamo dei fazzolettini per pulirci,” era stata la risposta del signor Tenerani.
E in quel momento, avevo ricominciato a sentire anch’io l’appiccicume tra le dita delle mie mani.



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