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Così la Cgil scopre i professionisti precari

Da Brunougolini

Così la Cgil scopre i professionisti precariNon sono le tradizionali tute blu che affollano le assemblee della Cgil. Sono giovani archeologi, interpreti, architetti, traduttori, avvocati, bibliotecari, promotori finanziari. Donne e uomini che tentano di aprirsi un varco nella giungla spesso sbarrata degli «ordini» professionali e che vengono incasellati sotto la categoria dei «professionisti», accanto ad affermati «baroni» delle diverse specialità.
Ascolto le loro testimonianze su come la gente e il fisco, egualmente appaiati, attribuiscano loro grandi guadagni e invece vivano una condizione di precarietà che non li rende diseguali dalle famose «tute blu». Sono riuniti in una sala dell’università Marconi a Roma e i loro interventi (trasmessi da radio Articolo Uno) spesso concludono con un ringraziamento al sindacato e soprattutto a Davide Imola, il responsabile della Consulta del Lavoro Professionale Cgil che ha promosso l’incontro. Sono quasi stupiti perché nel passato spesso hanno bussato alle porte sindacali, ma senza trovare ascolto. Certo non mirano alla conquista di un contratto a tempo indeterminato. C’è chi esclama: «Non vogliamo il posto fisso, siamo lavoratori liberi». Non si sentono nemmeno «solo gli 11 numeri che compongono la partita Iva». Insomma chiedono di poter essere davvero «autonomi senza essere sfruttati». Quelli della consulta toscana raccontano se stessi anche ricorrendo a canzoni paradossali come «Chiamale, se vuoi, professioni». Magari citando il mestiere del traduttore attraverso le pagine de La vita agra di Luciano Bianciardi.
Sono le nuove «tute bianche» della Cgil. Una di loro sostiene che forse è il caso di parlare solo di lavoratori e lavoratrici senza contrapporre «dipendenti» a «indipendenti». Perché, aggiunge, «il mio reddito di lavoratrice autonoma è più o meno quello di un lavoratore dipendente. Sono con partita Iva, ho famiglia, un figlio, pago un mutuo e non accetto più una separazione tra me e un altro lavoratore». E altri spiegano le cose che li dividono da altri lavoratori come la mancanza di ammortizzatori sociali, il trattamento di malattia, il trattamento di maternità e pensionistico. Molti così se la prendono con la cosiddetta «gestione separata» dell’Inps riservata loro e che considerano «una truffa insostenibile», perché sono costretti a pagare, attraverso i contributi, «più di qualsiasi altro lavoratore o datore di lavoro per un diritto futuro che non sappiamo quando verrà realizzato».
Non sono una minoranza. Un documento Cgil parla di oltre 4,3 milioni di professionisti «con pochi diritti e tutele» e un reddito mensile medio pari a 753,44 euro mensili. E le femmine, prevalenti tra le tute bianche, percepiscono redditi inferiori: in media 6mila euro in meno all’anno tra le partite Iva. Tra le donne parasubordinate quelle nella fascia d’età tra 40 e 59 anni hanno un taglio di 13mila euro di compenso annuo rispetto ai maschi. Per questo è stato presentato, ricorda Salvatore Barone, il Decalogo dei diritti, ovvero «un complesso di proposte elaborate insieme a moltissime associazioni professionali» e con «la necessità di garantire, anche attraverso la contrattazione collettiva, le tutele sociali a tutti i lavoratori indipendentemente dalle loro modalità d'impiego».
È una pagina nuova aperta dal maggior sindacato italiano. Lo fa capire Susanna Camusso che incontra queste tute bianche poco dopo aver incontrato le altre tute delle fabbriche siderurgiche di Piombino in lotta per la sopravvivenza. Spiegando che «se non produciamo acciaio anche il nuovo scompare» e che esiste una frontiera per tutti. Per il sindacato, afferma, oggi c’è la necessità di ricostruire una conoscenza di processi produttivi frantumati. E di definire i confini della «subordinazione», ovverosia di quando si è veramente autonomi o dipendenti. Magari guardando ad approdi che oggi possono apparire utopici come l’affermazione di un diritto alla tutela in caso di maternità per tutte le donne e di un sistema fiscale in proporzione al reddito percepito e non all'etichetta magari professionale di cui si gode. E lo stesso sindacato dovrà cambiare, come sta tentando di fare, le sue impostazioni, inaugurando quella che ha chiamato «contrattazione inclusiva» ovverosia una «contrattazione diversa che parla a tutti e non solo a una parte del mondo del lavoro». Unendo tute bianche e tute blu.

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