6 febbraio
Al quarto giorno dai miei mi accorgo che preservo alcune abitudini catanesi. Al mattino riscaldo la stanza prima di lavarmi, la sera vado a letto presto e leggo finché non mi addormento. Quando arriva il sonno la camera da letto, fin dentro le coperte, è piena di qualcuno, di qualcosa. Sono giorni in cui leggo solo per avere conforto. Così la solitudine mi pesa meno dell'attesa, dell'ansia di sapere se dovrò tornare sotto i ferri. Certo condivido la mia preoccupazione con alcuni amici, m'illudo che parlarne possa essere, almeno parzialmente, una soluzione. E intanto aspetto.
Aspetto.
5 febbraio
Oggi due fulmini sono caduti nel letto del torrente dietro casa. La pioggia l'aveva ormai riempito, ma la sua corsa sterile portava il flusso verso uno scarico comunale. Così scorreva, senza senso, il frutto di quella pioggia torrenziale.
Il solo avvenimento degno di nota.
4 febbraio
Il dolore mi impedisce quasi di camminare. Mi muovo dal divano al letto, dal letto alla sedia, accendo e spengo il televisore, apro e chiudo il libro di McGrath, controllo gli orari dei treni per Catania, di nuovo una fitta, mi rassegno.
Provo a cercare un senso, una struttura, non ne trovo.
3 febbraio
Ha un ombretto luminoso, una maglia di pile scuro, dei leggins bianchi e neri e delle calosce color cammello. Mi chiede se ho subìto altri interventi, li elenco, mi chiede se ho avuto figli o aborti, non ne ho avuti, mi chiede se sono allergica a qualche farmaco, non posso assumere efedrina, porto le frequenze cardiache di un criceto. Ha un tono calmo, scrive a penna. Fa quello che deve fare. Ci risentiamo tra qualche giorno. Tra qualche infinito giorno.
In macchina mi addormento, come da piccola, di ritorno dagli ospedali, Messina era la città delle visite mediche, del dottore di turno, dell'edicola dopo la visita, del premio, di qualche fumetto che leggevo in macchina al ritorno, con la luce che andava e veniva dentro e fuori dalle gallerie, prima di cadere nel sonno.