Lui siede sull’altalena. Non sa ancora dove mettere le mani, come posare il busto, non sa ancora governare il suo corpicino avvolto in una tuta arancione che lo ripara dal freddo di questa domenica mattina di inizio marzo. Mi guarda con gli angoli della bocca tirati, quella che lo sta per invadere è un’emozione senza pretese. Lo spingo un po’ da dietro, ed ecco che quella piccola emozione prende il sopravvento, la sua boccuccia da cupido si spalanca in un sorriso, i suoi occhi luccicano di meraviglia. È la prima volta che lo vedo sull’altalena. Le volte precedenti, quando venivamo qui, ci limitavamo a guardare i bambini più grandi che giocavano, a sorridere ostinatamente a intere famigliole coi marmocchi sui passeggini. Adesso un giro sull’altalena se lo può permettere anche lui, adesso che mi guarda con una specie di sorriso grato e commovente. Sull’altalena accanto alla sua siede una bambina di due anni. Si chiama Sofia e ripete tutto ciò che sente. Sofia guarda lui, ma lui non guarda Sofia. Lui guarda me, non ha occhi che per me. Mentre l’altalena oscilla avanti e indietro, obbedendo alle leggi della fisica, i nostri sguardi formano un’entità unica e impersonale, si fondono in un luogo che è fuori dal mondo. Il padre di Sofia prova a scambiare due parole con me, ma la sua voce rilassata e cortese non riesce a scalfire questo momento di pace perfetta. Mi dice che la ragazzina gli dà da penare tutte le sere fino a mezzanotte, il suo corpo piccolo e tozzo intanto ondeggia al ritmo dell’altalena sulla quale dondola sua figlia. Il padre di Sofia forse non lo sa, se quella in cui siamo racchiusi è una scena solenne, allegra, commovente oppure comica. Dopotutto, penso che molti esseri umani hanno forme strane di socialità, preferiscono parlare dei fatti loro piuttosto che godersi un momento di armonia cosmica, un punto del tempo in cui nasce un universo, come il momento che vivo io. Questa è la mattina in cui vedo per la prima volta mio figlio andare sull’altalena, come facevo io secoli fa, sotto il sole degli anni Settanta, prendendo le boccate di fiato che mi sarebbero servite più avanti, nella vita, nei momenti di non respiro.
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