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Country Profiles: Bahrain

Creato il 22 dicembre 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

bahrain-mappa

di Stefano Lupo

La famiglia sunnita degli al-Khalifa controlla il piccolo Stato insulare del Bahrain dalla fine del 1700 (il protettorato britannico finì nel 1971) e rappresenta la memoria storica del Paese che per primo iniziò lo sfruttamento economico dei proventi derivanti dall’oro nero. Una dinastia che controlla una popolazione per due terzi composta da sciiti e per circa il 35% del totale da lavoratori stranieri (normalmente impiegati nel settore delle costruzioni). Da questi dati ben si comprende come in fieri il vero problema per il Bahrain non sia tanto la produzione petrolifera in declino (i cui rischi vengono ridotti da una brillante diversificazione energetica ed economica) quanto il disordine socio-politico latente sul territorio nazionale, miracolosamente sopita fino agli inizi del XXI secolo, in particolare al 2011.

Riforme e procedure di democratizzazione imposte dall’alto da parte del governo del Re Hamad al-Khalifa non hanno sortito gli effetti sperati; il Bahrain continua ad essere una delle pedine fondamentali degli equilibri regionali, nonostante gli imbarazzi che provocano non solo la diatriba tra la minoranza sunnita e la maggioranza sciita, ma anche per gli affari poco chiari della famiglia reale stessa. Il Regno Unito a metà dicembre ha annunciato la stipula di un accordo per la realizzazione di una base navale del valore di circa 15 milioni di sterline, da inserirsi nel macro progetto della base americana dove si trova la Quinta Flotta.

Tutto questo nonostante le manifestazioni di piazza contro il governo e la famiglia reale. La popolazione di fede sciita contro la percepita discriminazione sia dal punto di vista politico sia di quello economico, nonostante le continue repliche dell’establishment, che cercano di rispondere alla accuse ribadendo la bontà dei progetti finanziari della famiglia reale, visti come un concreto impulso alla crescita economica.

Recentemente, una forte espressione del dissenso sciita si è concretizzata nel periodo immediatamente precedente all’elezione per la Camera bassa del Parlamento dello scorso 22 novembre, la prima tornata elettorale dopo le proteste del 2011 quando, sulla scia dei sommovimenti delle “Primavere Arabe”, la maggioranza sciita scese in piazza contro la discriminazione attuata dai vertici del Paese. La capitale Manama venne sconvolta dalle rimostranze nei confronti del monarca Hamad per la sua accettazione delle raccomandazioni espresse dal “Dialogo Nazionale”, una commissione di nomina governativa preposta ad affrontare le turbative socio-politiche interne. Gli oltre 30 morti, tra il febbraio e il marzo 2011, testimoniarono la frustrazione per le conclusioni incomplete del “Dialogo”, definite dal principale partito d’opposizione, il filo-sciita al-Wefaq, come un affronto verso i gravi squilibri interni, considerando un insostenibile fallimento i tentativi di riforma governativi. A sedare le sommosse del 2011 contribuirono le truppe del GCC (Gulf Cooperation Council, di cui il Bahrain fa parte) di fatto a guida sunnita, nella sostanziale acquiescenza internazionale. Riyadh ha sempre considerato le proteste sciite nei Paesi del Golfo come parte di un complesso disegno strategico di destabilizzazione attuato dall’arci-rivale regionale, l’Iran.

Le elezioni di questo 22 novembre, boicottate da al-Wefaq, hanno visto, il 2°turno del 29 novembre, la vittoria di figure indipendenti quasi totalmente in linea con la corrente filo-governativa. Le turbolenze post-elettorali, culminate il 9 dicembre con la morte di una persona a sud-ovest della capitale per un’esplosione (un primo attentato aveva ucciso un’altra persona pochi giorni prima), rischiano di esacerbare il settarismo regionale in cui pesca a piene mani lo Stato Islamico negli altri scenari di crisi mediorientale, sebbene fino ad ora non si siano registrate fughe massicce di soggetti radicalizzati dal Bahrain verso l’IS (ad oggi soltanto in dodici secondo le stime del Center for the Study of Radicalization). Un particolare di stridente rilevanza se si considera l’impegno del piccolo regno nella coalizione anti-IS.

Ancor prima delle elezioni, a inizio 2014, si sono verificati episodi di concreta instabilità; il 15 febbraio, anniversario della strage del 2011 e più recentemente, il 29 ottobre, la sospensione temporanea dell’attività de al-Wefaq, elementi che rappresentano una chiara dimostrazione del forte disagio interno. L’imporsi nelle elezioni, affianco agli indipendenti, di alcuni esponenti salafiti e appartenenti ai Fratelli Musulmani, ha nel contempo ampliato i timori della comunità sciita. In tale contesto al-Wefaq, che pure aveva vinto le elezioni del 2006 e 2010, salvo poi essere penalizzato dalla divisione delle circoscrizioni elettorali, rischia di divenire il principale bersaglio della corte degli al-Khalifa. La Camera dei Rappresentanti (Majlis al-Niwab), ora totalmente filo-governativa getta una luce ancor più fosca sulle possibilità sciite di far sentire le proprie istanze, socio-culturali ed economiche. La Camera Alta, il Majlis al-Shura, non è neanche da prendere in considerazione, essendo i suoi membri di diretta nomina reale.

L’orizzonte economico del Paese appare funestato inevitabilmente dai dissensi socio-politici che minano la tenuta dei settori finanziari e manifatturieri, necessaria alternativa e diversificazione dal soffocato e declinante mercato degli idrocarburi. L’instabilità ha ridotto l’afflusso degli investimenti stranieri, impoverendo nel contempo il settore turistico. A tenere in piedi il paese sono da un lato le derivazioni dei business familiari degli al-Khalifa, dall’altro il sistema delle banche off-shore. Fortemente minacciata da un’eventuale ulteriore discesa del prezzo del petrolio (visto che il break-even fiscale per il Bahrain è posizionato a 120$ a barile), Manama deve fare i conti con un forte deficit statale sin dal 2009, elemento che ha più che raddoppiato il suo rapporto debito/PIL. La famiglia regnante, che dispone di un ampio portafoglio, tra cui valori immobiliari in Regno Unito per quasi 900 milioni di $, è naturalmente al vertice di ogni core business, specie edilizio. Mantengono un certo vigore, nonostante il clima di incertezza, il settore chimico e metallurgico, collegati in un certo qual modo al regime d’affari che lega Manama a Riyadh.

Fonte: Riskandforecast
Fonte: Riskandforecast

L’elemento di maggiore instabilità economica resta comunque la scarsa presenza di lavoro qualificato locale, circostanza che obbliga il forte impiego di personale straniero. La radicata presenza di lavoro sottopagato non locale favorisce isole di criticità e malcontento dove, specie nell’instabilità socio politica nazionale del Bahrain, l’attecchire di derive estremiste non appare certamente un evento remoto e improbabile.

* Stefano Lupo è Research Fellow presso Iran Progress e Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche e Politiche ed Economia del Mediterraneo (Università di Genova)

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[1] Come nel caso del “Premiere Group”, veicolo finanziario altamente secretato in possesso della famiglia reale impiegato in programmi di sfruttamento sottomarino propedeutici a ottenere partecipazioni in rivendicazioni di terreni per business partnership per la costruzione di hotel di lusso.

[2] Navi inglesi sono già presenti nel porto di Mina Salman. È percepibile il tentativo bahrainita di cercare di impedire che l’impianto strategico americano nell’area si trasferisca nell’area portuale in ascesa di Duqm, in Oman, al di fuori del Golfo Persico.

[3] Circa un 25% del PIL complessivo, lo stesso valore di quanto deriva dall’esportazione del greggio.

[4] Bahrain credit rating lowered as break-even price of oil rises, RiskandForecast.com, 03/09/2010.

Photo credits: Google

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