C’è una sottile differenza tra credibilità e presunzione. Se superarla è facilissimo, posso garantire che definirla è una faccenda ardua.
La credibilità è una sorta di voce, ma non è che abbia scritto qualcosa che cambierà il corso della storia.
Apri la prima pagina di un libro, e quella voce ti piglia.
O forse ti morde?
Qualunque sia la definizione che vogliamo dare a essa, spesso succede. Si sente un timbro, una credibilità appunto, che ci spinge a continuare la lettura. Magari ci tradisce, scivola, cade ma si rialza.
Oppure, non si rialza più.
L’ho trovata in tanti autori. Melville, Tolstoj, Dostoevskij, Cormac McCarthy. Mi ha sorpreso in Halldór Laxness o Thor Vilhjálmsson. In Garcia Marquez, Stig Dagerman, Göran Tunström. E non solo.
Non l’ho incontrata in altri autori che pure sono bravi, hanno enormi capacità.
Che sia il talento? Può darsi. E forse la credibilità è di certo anche un po’ di presunzione, perché altrimenti passare le giornate a scrivere? Non abbiamo già sufficienti capolavori? L’Iliade e Moby Dick. I Fratelli Karamazov e Il grande Gatsby. Bastano. Contengono sufficiente bellezza per i prossimi secoli, sino alla fine del mondo.
O forse no. Non è questo il punto però.
Cosa distingue la credibilità dalla presunzione?
Probabilmente, la seconda nasce quando abbiamo la storia impacchettata, e crediamo che sia sufficiente esporla.
La credibilità emerge quando ci si mette a disposizione della storia. Che non conosciamo. Che forse insegnerà qualcosa di ignoto a noi stessi. Ed è proprio la nostra ignoranza che ci impone di essere efficaci. Di fare del nostro meglio per servire la storia.
Trovo sciocco quando ci si stupisce di un certo autore perché magari beveva. O dava mostra di insensibilità. Purtroppo anch’essi erano tragicamente umani. Ma erano capaci comunque di scrivere dei capolavori.
Tutto è in mano nostra, ma solo quando ci denudiamo del nostro potere. Ci mettiamo in ascolto della storia, rispettando i personaggi.