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Crisi di governo: Matteo Renzi e il salto mortale

Creato il 14 febbraio 2014 da Tafanus

Ecco perché Renzi cambia gioco. E ora vuole il posto di Letta. Col rischio flop. Retroscena di quello che sembra un blitz. Ma non lo è (di Marco Damilano - l'Espresso del 14 Febbraio 2014)

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L'operazione "Matteo Premier Subito" ha l'apparenza del blitzkrieg, la guerra lampo, l'attacco rapido che non lascia scampo all'avversario, una specie di battaglia di Austerlitz renziana condotta in poche mosse fulminee: ultimatum al premier Enrico Letta la settimana scorsa alla direzione del PD, lunga cena con Giorgio Napolitano per placare le perplessità del Quirinale, intervento davanti ai deputati del partito alle otto del mattino di martedì 11 febbraio, l'ora preferita dal segretario-sindaco per riunioni, proclami, decisioni, imboscate, resistenza, e infine resa dell'inquilino di Palazzo Chigi costretto a sloggiare dopo un drammatico faccia a faccia con il pretendente alla successione. Ma non c'è nulla di improvvisato nel progetto di ascesa di Matteo Renzi alla guida del governo, potenziale presidente del Consiglio più giovane della storia repubblicana (sbagliato: Goria è stato Presidente del Consiglio a 34 anni. NdR), anzi, della storia unitaria (l'attuale detentore del record aveva al momento della nomina 39 anni e tre mesi, Renzi i trentanove li ha compiuti poco più di un mese fa: si chiamava Benito Mussolini).
Anzi, è una scalata lungamente preparata. Cominciata un anno e mezzo fa, il 13 settembre 2012, quando il Bimbaccio in maniche di camicia come uno sposo al ricevimento si candidò alla primarie per la premiership dal palco dell'auditorium della Gran Guardia in piazza Bra a Verona spiegando: «Noi siamo quelli che hanno l'ambizione di governare l'Italia per i prossimi venticinque anni. Mi dicono: lascia perdere, chi te lo fa fare? Hai 37 anni, aspetta il tuo turno. Ma adesso tocca a noi». Interrotta nel momento più amaro, la batosta alle primarie contro Pier Luigi Bersani, il 2 dicembre 2012, che sembrava condannarlo ad altri cinque anni di inaugurazioni di scuole a Firenze e che, invece, in virtù di quella fortuna che non deve mancare mai all'aspirante principe, si è trasformata in una maledizione per il vincitore e in una straordinaria opportunità per lo sconfitto, a un anno esatto di distanza dal terribile voto del 25 febbraio, quando Bersani fu travolto dall'onda di piena del Movimento 5 Stelle. Perfezionata, infine, la notte dell'8 dicembre, appena due mesi fa, nello speech di investitura dopo il voto delle primarie che lo aveva plebiscitato leader: «Forse useremo metodi un po' spicci, ma non confondete un cambio di governo con l'ambizione di cambiare il Paese. Abbiamo preso i voti per scardinare il sistema, non per sostituirlo». Un discorso da premier in pectore, non da segretario.
Ma il vero cambio di rotta, la decisione di andare a Palazzo Chigi senza passare dalle elezioni, Matteo Renzi l'ha presa prima di essere eletto segretario del Pd, il 4 dicembre, quando alla convocazione dei gazebo Pd mancavano quattro giorni. Quel pomeriggio la Corte Costituzionale bocciò la legge elettorale Porcellum, con motivazioni inusuali, lasciando al suo posto un sistema di voto a brandelli e nei fatti inapplicabile. «Una sentenza politica», la bollò il padre del maggioritario Mario Segni, che sembrò provocare l'effetto politico di blindare la legislatura e dunque, anche, il governo Letta. La vittima designata, in questo scenario, doveva essere proprio il trionfatore annunciato delle primarie, Matteo il Giovane: imprigionato nel sistema, senza la possibilità di ricorrere all'arma da fine del mondo, le elezioni anticipate, minaccia spuntata per quanto agitata quasi ogni giorno, intrappolato nella palude.

E non per caso il primo pensiero del segretario del Pd appena eletto, nella notte fiorentina, fu per loro, «i professionisti dell'inciucio, i burocrati, i papaveri, chi pensava di stabilizzare le larghe intese, chi si preparava a brindare al ritorno alla proporzionale: vi è andata male!». È lì, in quel passaggio di estrema difficoltà, che per Renzi si materializza la scomoda alternativa. Sostenere il governo Letta, a costo di reggerne il peso dell'impopolarità e di perdere malamente le elezioni europee del 25 maggio, oppure tentare la scorciatoia, l'azzardo, «la forzatura», come la chiama Paolo Gentiloni, tra i più autorevoli sostenitori della prima ora, il rischio mortale.

Il pericolo, soprattutto, di tradire il cromosoma essenziale del renzismo, conquistare una carica con la spinta di un voto popolare e non con una manovra di vertice, che si tratti di Palazzo Vecchio, la segreteria del Pd o la guida del governo. «Non sono come Letta o come Angelino Alfano, portati al governo da altri, da Massimo D'Alema o da Silvio Berlusconi: io sono diverso, sono qui perché ho ricevuto un mandato popolare, tre milioni di persone che mi hanno votato», diceva un mese fa. E ora, invece, lo sbarco a palazzo Chigi avviene con modalità simili a quelle che hanno portato alla premiership Mario Monti o Enrico Letta: gli unici due presidenti del Consiglio indicati dal risultato di un voto negli ultimi venti anni rimangono Berlusconi e, nel centro-sinistra, Romano Prodi.

Renzi, il più attrezzato a uguagliare e superare il primato del Professore, non farà invece eccezione. Di più, la scalata ricorda in modo inquietante le liturgie della Prima Repubblica: consultazioni istituzionali avvolte nel mistero, direzioni del partito convocate per staccare la spina al governo presieduto da un esponente dello stesso partito, trattative segrete, proposte di scambio, la poltrona degli Esteri offerta come premio di consolazione al premier uscente come si usava ai tempi della Dc di Mariano Rumor e del manuale Cencelli, nessun passaggio elettorale e neppure nelle aule della Camera e del Senato.
Una crisi tutta extra-parlamentare che porta alla guida del governo un leader che a Montecitorio ha letteralmente messo piede la prima volta due settimane fa per un incontro con i deputati del Pd. «Questo è il famoso Transatlantico? Me lo fate vedere?», si è affacciato curioso Renzi alle otto di sera di un lunedì sulla guida rossa del corridoio principale di quella Camera dove potrebbe ritrovarsi tra qualche giorno a tenere il discorso della fiducia da presidente del Consiglio. In quelle stanze, l'accelerazione del cambio di inquilino a Palazzo Chigi è stata accolta con euforia da tutti i capi-corrente del Pd. «Quando Matteo è venuto a spiegare che il suo è un governo che arriverà fino al 2018 è salita una ola tra i deputati», racconta Gentiloni. «La cosa che mi diverte di più è che tutto nasce e finisce da uno scontro tra democristiani. Nel pugnalare Letta, lo riconosco, Renzi ha dimostrato di appartenere alla stirpe», gongola Giuseppe Fioroni, certo non un amico del segretario fiorentino.

Renzi-chiamparino

...che tristezza, Chiamparino...

E Dario Franceschini, il gemello di Letta, si è defilato al momento giusto: mentre si consumava la resa dei conti tra i due rivali a Palazzo Chigi lui si è messo a fotografare la smart blu nel cortile di Palazzo Chigi che ha portato Renzi all'incontro decisivo, a immortalare la conquista, il momento storico, il passaggio di campo (suo). La minoranza post-Ds, erede del Pci, nel momento del trapasso è la più entusiasta: «Letta non ha capito di quale spinta sia capace Renzi», ammette ora Gianni Cuperlo, che meno di un mese fa si è dimesso dalla presidenza del partito in segno di protesta per l'irruenza polemica del numero uno di largo del Nazareno. E il ciclone Renzi si abbatte sugli altri partiti: in Sel divisa Nichi Vendola presidia il territorio, fa su e giù in Transatlantico con i deputati, il capogruppo Gennaro Migliore che partecipò alla conclusione dell'ultima edizione della Leopolda, il meeting renziano, ed è tentato dall'ingresso nel governo e il pupillo Nicola Fratoianni, fieramente contrario.

Nella Lega c'è l'imprevista apertura dell'altro Matteo (Salvini). E in Forza Italia? C'è l'ammirazione per la discesa in campo fulminea di impronta berlusconiana e il timore di restare confinati per anni all'opposizione. La speranza che Renzi possa fare quello che Berlusconi ha sempre mancato, la riforma della giustizia, per esempio, il calcolo del logoramento, la paura di restare isolati. «Se tutto va bene, Matteo sarà il primo segretario del centro-sinistra ad aver fregato Berlusconi e non viceversa», spiegano nel cerchio magico renziano. «Lo ha coinvolto nella maggioranza per le riforme e da lì il Cavaliere non si può sfilare, se lo fa si becca una legge elettorale senza di lui, c'è la maggioranza per farla. E intanto partirà una maggioranza per un governo di legislatura senza Forza Italia e con Alfano rassicurato dalla prospettiva di arrivare fino al 2018».
E se invece tutto va male? Anche un personaggio ricco di autostima come Renzi, per usare un eufemismo, non può non mettere nel conto le incognite dell'operazione. La più importante: il leader ha sempre predicato l'esigenza di una riforma radicale delle istituzioni, una nuova legge elettorale con una maggioranza sicura e l'eliminazione del bicameralismo, ma se andrà a Palazzo Chigi troverà il vecchio sistema di sempre, con i suoi regolamenti e i suoi tempi biblici, la navetta tra le due Camere e gli attuali gruppi parlamentari, con il Movimento 5 Stelle sulle barricate, prevedibilmente ringalluzzito dalla possibilità di interpretare la parte di unico oppositore del nuovo governo. I rapporti di forza sono invariati, soprattutto al Senato, dove Letta poteva contare su dieci voti di scarto: Renzi potrebbe allargare la maggioranza con qualche apporto di Sel o addirittura di qualche dissidente grillino, ma questo non farebbe che aumentare l' eterogeneità della nuova maggioranza, dall'alfaniano Carlo Giovanardi, nemico giurato di ogni legge sulle unioni civili e sulle coppie di fatto, ai senatori vendoliani. Se poi dovessero aggiungersi le astensioni leghiste l'eventuale governo Renzi assumerebbe i colori dell'arcobaleno: rosso-azzurro-bianco-verde... In questa situazione anche il capitano più valoroso rischia di entrare nella stanza dei bottoni e trovarla desolatamente vuota.
Una seconda incognita riguarda la preparazione del candidato a Palazzo Chigi: l'abilità, il fiuto, l'intelligenza quasi ferina di Renzi, la sua rapidità nel capire le situazioni e nel cambiare gioco è fuori discussione. Ma per ora la sua esperienza di uomo di governo si ferma alla Provincia e al Comune di Firenze, macchine a disposizione del presidente e del sindaco, in aule consiliari dove una star della politica nazionale come Renzi si muove a piacimento. Nella macchina-governo, invece, l'alta dirigenza statale, quel blocco di capi-gabinetto e direttori generali dei ministeri, «i papaveri» di cui parla Renzi, si muove compatta ed è passata indenne dai governi del centro-destra e del centro-sinistra fino a Monti. Il nuovo premier, se l'operazione andrà in porto, dovrà trovare una bussola per orientarsi. Consigliato da chi? Sui rapporti internazionali, se Renzi può essere inorgoglito dal semestre europeo, un debutto da protagonista sul palcoscenico, il più giovane governante del G20, le gaffes sono dietro l'angolo.
La terza incognita riguarda la classe dirigente, il nuovo potere che avanza: la lista dei ministri, certo, per cui è richiesta una prova di fantasia, un mix di innovazione e di competenza che non può fermarsi alla pura rivendicazione dei giovani e delle donne, come ha fatto Letta nel suo governo e Renzi nella segreteria del partito. Ma anche il pacchetto in arrivo ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, le cento poltrone del parastato, e naturalmente la Rai. Il vero banco di prova per stabilire se il passaggio, l'operazione Matteo premier subito è l'avvio di un cambiamento del sistema o, più semplicemente, un avvicendamento a Palazzo Chigi. «I pericoli ci sono, figuriamoci, ma è un'occasione da non perdere», si fa coraggio Matteo Richetti, il deputato emiliano che più di tutti ha sostenuto la mossa del cavallo nelle ultime settimane. Un fallimento di Renzi, considerato da una larga fetta di opinione pubblica l'unico motore, la sola spinta di energia in una politica paralizzata, l'ultima spiaggia, porterebbe con sé il crack finale del sistema. Anche se il ragazzo di Firenze rapidamente cresciuto fino ad arrivare alla guida del governo conosce bene il pericolo e ha pronta un'exit strategy: altro che governo di legislatura, in caso di logoramento e con una nuova legge elettorale, Renzi è pronto a tornare alla strada maestra, il piano A, la via preferita da sempre: nuove elezioni in ottobre.

(di Marco Damilano)

Espresso


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