Recessione, stagnazione, disoccupazione fanno tutte rima con frustrazione. E’ la frustrazione infatti lo stato d’animo più diffuso fra i giovani. Eppure se venti anni fa in Italia gli under 30 erano oltre 30 milioni, adesso sono poco più che dimezzati. Quindi, visto che la dinamica socio-economia contemporanea non è peggiore di allora, verrebbe facile affermare: meno pretendenti ai posti di lavoro disponibili, più giovani occupati. Invece accade il contrario.
Secondo l’ISTAT (dati luglio 2012) il tasso dei “senza posto” in Italia ha toccato quota 10,5% (dati grezzi), in crescita di 2,7 punti percentuali rispetto all’anno precedente. Si tratta del livello più elevato dal secondo trimestre del 1999, quando il dato aveva toccato il picco dell’11,2 per cento. Il tasso di disoccupazione dei giovani fra i 15 e 24 anni è al 33,9%, dal 27,4% dallo stesso periodo 2011 e sale al 50% per le ragazze. Questo trend è ampiamente al di sopra del dato medio registrato sia per l’area euro (21,6%) che per l’EU a 27 (22,4%)[1].
Secondo il XVI rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati, calcolata su 400 mila individui, uno su cinque risultano essere senza lavoro[2]. Una tendenza che si registra finanche fra gli ingegneri. Inoltre i nostri giovani preferiscono percorsi universitari umanistici, trascurando le lauree scientifico-tecnologiche[3].
Di fronte a questa desolante situazione è possibile avanzare diverse spiegazioni. Essa si può alla concorrenza “sleale” delle potenze economiche emergenti o alla delocalizzazione perpetuata dalle nostre aziende al fine di produrre a costi più ridotti e massimizzare i propri profitti. Oppure all’ “egoismo” dei nostri padri che difendono i loro “privilegi” e preferiscono mantenere disoccupati i figli, trasformandoli in “bamboccioni”, piuttosto che aprire il mercato del lavoro alla competizione dei migliori, dei più efficienti e più flessibili.
È possibile affermare che ognuna di queste ipotesi dica qualcosa di reale ma è pur vero che queste spiegazioni tralasciano non poche questioni irrisolte. Uno dei temi che tiene banco nei discorsi dei politici e nell’agenda dei tecnici, è il ripensamento dell’intero sistema formativo che attualmente tende a privilegiare la conoscenza teorica a scapito di un’ampia, profonda e generalizzata conoscenza pratica, quella che Karl Polanyi chiama conoscenza tacita[4].
È legittimo domandarsi se la cura giusta per creare più lavoro per i giovani e, soprattutto per creare più lavori qualificati disponibili per loro, sia continuare a colpevolizzarli, come si è fatto in questi decenni, perchè frequentano scuole e università “astratte”, caratterizzate da piani didattici prettamente teorici. Sarebbe auspicabile invece, fra le tante auspicabili iniziative pubbliche e private, investire in formazione pratica, declinata alle esigenze del mondo produttivo.
Un altro vincolo che pesa sul mercato del lavoro giovanile e sui percorsi formativi del sistema scolastico ed universitario italiani attiene alla scarsa considerazione che spesso si attribuisce al lavoro manuale. Questo tipo di lavoro, infatti, non solo è, in genere, considerato qualcosa che non può rivendicare la propria dignità culturale e le potenzialità formative della conoscenza acquisita sul campo, ma addirittura è visto come qualcosa che non è nemmeno “conoscenza pratica”. Sarebbe soltanto, infatti, segno di una sconfitta personale, destinato ai “falliti della conoscenza” come gli espulsi dalle scuole e dalle università (Bertagna 2011)[5].
In Italia infatti, solo il 5% dei giovani che ha superato i 15 anni dichiara di vedersi occupato, in futuro, in un lavoro manuale. In tutti gli altri paesi Ocse la percentuale è ben superiore. In Svezia, ad esempio, la percentuale supera il 40%. Imparare sul lavoro e attraverso il lavoro anche un lavoro manuale non è affatto ritenuto una diminutio personale, sociale, culturale e civile. Da sempre le generazioni giovanili sono diventate adulte, sperimentando lavori e provando su di essi le proprie attitudini, oltre che la propria intelligenza e il proprio carattere: per esempio, parte delle vacanze estive in un’officina, il tempo libero per collaborare ai servizi sociali per anziani e bisognosi, il curare periodicamente lavori agricoli, l’andare a bottega per alcuni giorni la settimana, lavorando e imparando dal “maestro”.
Come sostengono, fra gli altri, Russel (1995), Bianchi (2008), Corona e Sennet nel suo libro “L’uomo artigiano” (2008) non ci sono idee senza esperienze e viceversa: non ci sono cose, mondo, vita senza idee e teorie[6]. Scienza, tecnica e cultura, non esistono e non possono esistere separate.
D’altra parte vi sono numerosi studi che sostengono che se l’atteggiamento positivo verso il lavoro manuale non si acquisisce ben prima dell’adolescenza è molto improbabile che sbocci e si strutturi dopo. E che se è un disvalore da cui guardarsi prima, non può all’improvviso, da una certa età in poi, diventare un valore centrale sia del proprio progetto di vita sia del dibattito pubblico e civile e delle strategie culturali e formative delle nuove generazioni.
Si tratterebbe perciò, di introdurre al più presto interventi strutturati per agevolare il passaggio dalla scuola al lavoro mediante il rilancio del contratto di apprendistato e dei tirocini formativi, esaltando però la funzione professionalizzante e la dignità lavorativa di tali strumenti. Tutto questo contribuirebbe a diminuire il gap sempre più preoccupante che si registra tra la dimensione teorica della formazione e il mondo del lavoro.
[1] Il 10,5% dei giovani italiani fra i 15 e i 24 anni (6,3% al centro, 6,5% al nord e 16,2% al sud) non studia, non lavora e, aspetto ancora più preoccupante, ha smesso di cercare un lavoro. Se si estende la fascia d’età fino ai 29 anni, la generazione dei Neet (Not in Education, Employment or Training) sale addirittura al 21,2%. Una percentuale che non ha uguali nei 30 paesi dell’Ocse e che è quasi il doppio della media esistente nei 19 paesi dell’UE. Ancora peggio se la fascia d’età corre tra i 15 e i 34 anni. In questo caso, i giovani italiani Neet sarebbero oltre il 32%.
[2] Almalaurea (2012), XIV indagine Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione10/, 13/3/2012.
[3] Si potrebbe prendere ad esempio l’interessante caso di Singapore che negli ultimi anni è cresciuto più della nostra nazione perché ha investito nel capitale umano dei suoi giovani e oggi produce, in proporzione, il doppio dei nostri ingegneri e manager, un ottavo dei nostri avvocati e un quarto dei nostri umanisti (Persico 2012, “Ricette per la crescita: più ingegneri e meno filosofi”, in www.lavoce.info , 13/3/2012).
[4] Polanyi M. (1979), La conoscenza inespressa, Armando Editore, Roma.
[5] Bertagna G. (2011), “I giovani tra formazione e lavoro – Analisi e proposte”, Quaderni di ricerca sull’artigianato, CGIA Mestre, Numero 58 – II quadrimestre 2011, pp. 171-185.
[6] Russell B. (1995), Una filosofia per il nostro tempo, Tea, Milano; Bianchi E. (2008), Il pane di ieri, Einaudi, Torino; Sennett R. (2008), L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano.