Nel 2013, sei italiani su dieci (59%) hanno mangiato cibi scaduti. E’ quanto emerge da un sondaggio online condotto dal sito www.coldiretti.it sugli effetti della crisi sui consumi delle famiglie.
In particolare – sottolinea la Coldiretti – ben il 34% dei rispondenti ha portato in tavola alimenti fino ad una settimana dopo la data di scadenza, ma ben il 15% fino ad un mese e l’8% anche oltre, mentre il 2% degli italiani non guarda mai la data di scadenza.
(abagnomaria.blogosfere.it)
In generale, consumare prodotti alimentari oltre la data di scadenza può esporre – sottolinea la Coldiretti – a rischi rilevanti per la salute mentre nel migliore dei casi significa portare in tavola alimenti che hanno perso le proprie caratteristiche di gusto o aroma, ma anche nutrizionali. Si tratta di una tendenza preoccupante che – sostiene la Coldiretti – conferma gli effetti negativi della crisi sulla qualità dell’alimentazione degli italiani che hanno dovuto tagliare la spesa, ridurre gli acquisti di alimenti indispensabili per la dieta e rivolgersi a prodotti low cost che non sempre offrono le stesse garanzie qualitative.
Gli acquisti di frutta e verdura nel 2013 sono scesi al minimo da inizio secolo con le famiglie che – prosegue la Coldiretti – hanno messo nel carrello appena 320 chili di ortofrutta nel corso del 2013, oltre 100 chili in meno rispetto al 2000 mentre il 16,8% degli italiani non possono permettersi un pasto proteico adeguato ogni due giorni secondo l’Istat. Ad aumentare sono solo le vendite di prodotti alimentari low cost nei discount che sono gli unici a dare segnare un aumento nel corso del 2013 (+1,7%) mentre le gli acquisti alimentari degli italiani scendono complessivamente del 3,9%. Per essere pienamente consapevoli dei pericoli che si corrono nel consumare alimenti scaduti occorre conoscere la differenza tra la data di scadenza vera e propria e il termine minimo di conservazione che viene indicato sulle confezioni.
La data di scadenza vera e propria è la data entro cui il prodotto deve essere consumato ed anche il termine oltre il quale un alimento non può più essere posto in commercio. Tale data di consumo non deve essere superata altrimenti ci si può esporre a rischi importanti per la salute. Si applica ai prodotti preconfezionati, rapidamente deperibili da un punto di vista microbiologico ed è indicata con il termine “Da consumarsi entro” seguito dal giorno, il mese ed eventualmente l’anno e vale indicativamente per tutti i prodotti con una durabilità non superiore a 30 giorni. A differenza il Termine Minimo di Conservazione (TMC) riportato con la dicitura “Da consumarsi preferibilmente entro” indica la data fino alla quale il prodotto alimentare conserva le sue proprietà specifiche in adeguate condizioni di conservazione. Cioè indica soltanto la finestra temporale entro la quale si conservano le caratteristiche organolettiche e gustative, o tutt’al più, nutrizionali, di un alimento, senza con questo comportare rischi per la salute in caso di superamento seppur limitato della stessa. Si sottolinea però che tanto più ci si allontana dalla data di superamento del TMC, tanto più vengono a mancare i requisiti di qualità del prodotto, quale il sapore, odore, fragranza, ecc.
Attualmente solo pochi alimenti hanno una scadenza prestabilita dalla legge come il latte fresco (7 giorni) e le uova (28 giorni). Per tutti gli altri prodotti la durata viene stabilita autonomamente dagli stessi produttori, in base ad una serie di fattori che vanno dal trattamento tecnologico alla qualità delle materie prime, dal tipo di lavorazione e di conservazione per finire con l’imballaggio. Per questo, non è difficile, durante un controllo commerciale, vedere due prodotti simili, ma di marchio differente con data di scadenza diversa. E’ infatti compito di ogni singola azienda effettuare prove di laboratorio sui propri prodotti, per misurare la crescita microbica e valutare dopo quanti giorni i valori organolettici e nutrizionali cominciano a modificarsi in modo sostanziale. Il risultato è ad esempio che per l’olio d’oliva extra vergine alcune aziende consigliano il consumo entro 12 mesi, altre superano i 18, con il rischio di perdere le caratteristiche nutrizionali e di gusto secondo studi del dipartimento di Scienze e tecnologie alimentari e microbiologiche dell’università di Milano. Tali ricerche evidenziano come gli effetti del mancato rispetto dei tempi di scadenza variano – continua la Coldiretti – da prodotto a prodotto: per lo yogurt, che dura 1 mese, il prolungamento di 10-20 giorni non altera l’alimento, ma riduce il numero dei microrganismi vivi, mentre al contrario per i pomodori pelati quasi tutte le confezioni riportano scadenze di 2 anni anche se la qualità sensoriale è certamente migliore se si consumano prima.
La tentazione di mangiare cibi scaduti è spesso dettata nelle case anche dalla volontà di ridurre gli sprechi che secondo l’indagine Coldiretti/Ixè ha coinvolto più di sette italiani su dieci (73%) nel 2013. Un obiettivo che però non deve andare a scapito della qualità dell’alimentazione ma può essere egualmente raggiunto – conclude la Coldiretti – facendo la spesa in modo più oculato magari nei mercati degli agricoltori di Campagna Amica dove i prodotti sono più freschi e durano di più, riducendo le dosi acquistate, o riutilizzano nei tempi giusti quello che avanza con i piatti ella cucina del giorno dopo.