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Cronaca d'un volontario nell'alluvione di Vicenza

Creato il 07 novembre 2010 da Sulromanzo
Cronaca d'un volontario nell'alluvione di VicenzaDi Morgan Palmas
Il ritrovo organizzato dalla Protezione Civile è per le due del pomeriggio, in Piazza Giacomo Matteotti, a due passi dal Teatro Olimpico. Mi guardo attorno, balzano agli occhi subito due cose: quanti giovani e quanti immigrati. Giovanissimi direi, sedici diciassette anni, se fossi loro padre ne sarei orgoglioso. E immigrati, quegli stessi che andranno magari poi a portare aiuto in qualche abitazione leghista (lo scrivo senza polemica, semplice verità). Non posso dire quanti siamo, ma di sicuro centinaia di persone, disposte a mettere il proprio tempo a disposizione della collettività. La macchina organizzatrice della Protezione Civile mi sembra efficiente da subito, ruoli precisi e comunicazioni continue. Certo, quando accadono simili tragedie non è semplice essere armonici in tutte le periferie gestionali. Ci mettiamo in fila, c’è da firmare un documento dove ci registrano, serve per l’assicurazione. Dopo in una seconda fila, dove ci consegnano una pettorina. Stivali e guanti, per chi ne è sprovvisto. Il clima è sereno, si sorride, si scherza, si esorcizza. Pochi immaginano quello che vedremo, forse solo coloro che hanno già fatto altri turni come volontari. Il Comune mette a disposizione un autobus e ci portano nei pressi di Via Divisione Folgore, il percorso è fra le vie del centro, scene desolanti, all’esterno delle abitazioni cumuli di oggetti, mensole, libri, scaffali, vestiti, ricolmi di fango. Persone che lavano, puliscono, tentano di tornare alla normalità.
Giunti sul luogo, ci dividono ulteriormente in gruppi, già una prima selezione è avvenuta in Piazza Giacomo Matteotti, il nostro è di cinque persone. E ci rechiamo in un seminterrato d’un palazzo ad aiutare due signori titolari, da quanto comprendo, di una ditta di traslochi. Scendere i gradini, nel buio, porta via la spensieratezza, diventiamo seri, preoccupati quasi. Non si vede nulla all’inizio, c’è un odore intenso di fogne, dopo i gradini siamo nel fango, qualche centimetro, la maggior parte della melma è già stata drenata. Abbiamo due carrelli e iniziamo a portare fuori all’esterno quanto ci viene indicato, mani nella melma e continui ricarichi. Nella salita che porta alla luce del sole c’è da spingere, almeno in due, la pendenza rende l’operazione non facile. L’argine è a una decina di metri, questa è una delle zone più colpite della città. Tornato sotto, uno dei due signori dice: «Qui era tutto fango, la spinta dell’onda aveva alzato il soffitto». Alzo gli occhi, mando giù la saliva, non mi sento affatto bene dopo avere sentito le sue parole, elimino subito quella frase dalla mia testa e rimetto le mani nella melma, ricaricando i carrelli. Quanto più si rimane al buio, tanto più gli occhi iniziano ad abituarsi allo spazio circostante, si tocca, si chiede, si sposta, il materiale da buttare non è poco. Nessuna pausa, continuiamo a lavorare. Il bello deve ancora venire. 
Dopo una quarantina di minuti i signori ci ringraziano e saliamo in superficie, cerchiamo un capogruppo, che non troviamo, sono tutti sotto, in altri palazzi, decidiamo di scendere di nuovo. Il sangue mi si gela anche se spavaldo mi metto alla testa del piccolo gruppo scendendo le scale, è ancor più buio del primo palazzo, metto una mano al muro e controllo i passi, uno a uno. Ultimo scalino… sento il fango appena sotto il polpaccio, ovunque. Sento voci in lontananza e una luce di emergenza illumina debolmente un lungo corridoio di melma, l’ambiente è spettrale. Fili che penzolano dall’alto, odori intensi, rumori ovattati, si scivola. Siamo ancora in cinque, due persone entrano in uno scantinato ad aiutare chi sta salvando quanto rimane d’un pub, tre invece si aggregano a un gruppo che sta aiutando chi ha perso centinaia di migliaia di euro di mobili e libri antichi. Finisco nel secondo. Pezzi rari del Seicento e del Settecento, alzo gli occhi come avevo fatto nel primo palazzo, il proprietario ci dice che era tutto sotto il fango, gli oggetti galleggiavano. Parte del soffitto è crollato, i vigili del fuoco hanno dato il via libera all’accesso, ma non mi sento affatto tranquillo. Un lavoro diverso qui, c’è da accatastare a una trentina di metri, non all’esterno, tutto ciò che è irrecuperabile, valutando con attenzione. Pezzi di mobili, lampade, piedistalli, libri… la desolazione è tanta. Inizia a farsi sentire anche la fatica, portare carriole avanti e indietro, l’umidità che entra nel corpo indebolendolo, i vestiti sporchi e bagnati di fango. Nessuno sorride. Nessuno scherza. Siamo dentro una tragedia, un’apocalisse della natura che donerà conseguenze al territorio per anni.
Il nostro turno finisce, altri verranno, salutiamo e ritorniamo in superficie. Il titolare del pub, dall’accento campano, ci offre da bere, apre alcune bottiglie di vino, si ricomincia a sorridere, si scherza. Non rimane che sdrammatizzare. Ci dice che a dicembre vuole riaprire, la nostra promessa è immediata: ci saremo la prima sera. Un cameriere, anche lui lì ad aiutare, confida a mia sorella: «Qui vengono centinaia di giovani ogni fine settimana, ci si diverte, quanti ne abbiamo visti in questi giorni? Due, forse tre, facile fare i fighetti con gli spritz e poi quando c’è bisogno di aiuto dove sono?». Desolante? Sì, desolante. È un pub di moda, frequentato soprattutto dalla gente “bene” di Vicenza. Questo è quanto ho visto ieri facendo il volontario. Qui si è consumata una tragedia e da stasera il tempo peggiorerà ancora. 
Mi sento di dire un’ultima cosa: voi che siete magari lontani dalla mia provincia, aiutateci in qualsiasi forma se potete. Ci sono centinaia e centinaia di famiglie sfollate, attività commerciali chiuse e senza speranze, dolore. I vicentini, come sempre, hanno reagito a testa bassa, rimboccandosi le maniche, pochi lamenti e azioni concrete, orgogliosi e convinti che ognuno è protagonista della sua fortuna o sfortuna. Ma la solidarietà vale più delle idee, un gesto genuino e di cuore viene prima dei giudizi o dei pregiudizi. E vedere ieri insieme immigrati e leghisti, giovani e anziani, *polentoni* e *terroni* ha rafforzato nuovamente in me una visione: quando la sofferenza si abbatte su una famiglia o su un popolo o su un territorio bisogna essere seri, siamo tutti legati a un filo, non capirlo è un’insana follia. 

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COMMENTI (1)

Da alluvione 2000
Inviato il 15 novembre a 08:52
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Bravo, bravi