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Cronaca di una giornata al supermercato

Creato il 13 dicembre 2013 da Abattoir

di Annalisa Bracciante

Lunedì pomeriggio, 14:30. Vado a fare la spesa in un orario di scarsa affluenza. Spingo il carrello tra gli scaffali ricolmi di merci colorate. Gli espositori sono carichi di dolciumi e delizie che solleticano l’appetito. C’è il cioccolato in offerta! Mi lascio tentare dalla sua confezione dorata con le scritte rosse e nere e un’immagine che mi dice a gran voce: “mangiami!”.
Il mio giro per il supermercato continua, questa volta, però, seguo più attentamente la lista: latte, pasta, yogurt, carne. Arrivo alle casse, lì un’impiegata sorridente mi porge lo scontrino. Poi sposto lo sguardo un po’ più in là e trovo un altro sorriso, un sorriso ben più mite e sincero della quotidiana paresi facciale della commessa. È Gion! O meglio, io lo chiamo così. Il ragazzo non ha alcun cartellino e anche se lavora presso il supermercato non è un suo dipendente. Lui aiuta a riempire le buste della spesa e a portarle fino alle macchine. L’ho chiamato ragazzo, ma in realtà è un uomo dall’età indefinibile. Ha la pelle nera solcata dalle rughe, i capelli folti e ricci, due grandi mani ruvide e uno sguardo mite.
Non trattengo il mio sguardo su Gion a lungo perché mi vergogno. Mi vergogno della mia golosità che mi spinge a comprare un cioccolato a buon mercato pagato col sangue di chissà-chi, chissà-dove. Mi vergogno della nonchalance con cui casalinghe imbellettate fanno cadere una piccola monetina dorata e pretendono di essere trattate come delle padrone; “Tu, cioccolatino, prendi le cassette d’acqua! E sbrigati!” dice lo sguardo di certe donne. Mi vergogno di chi, arrabbiato per le proprie miserie, grida: “A casa!!! Tornate a casa!!! Qui lavoro per voi non ce n’è!”. Insomma, mi vergogno di chi continua a pensare che il mondo non sia la propria casa e di chi pensa che un africano non è proprio fratello, ma solo un pezzente che è venuto a rubare il lavoro-degli-italiani.

Per molti italiani trovare un lavoro dignitosamente retribuito è un grande problema, nonostante si abbiano in tasca una o due lauree. In alcune regioni d’Italia la disoccupazione sfiora persino il 50%. Viviamo in tempi di crisi economica (il crollo del NASDAQ, lo spread che sale, la decrescita del PIL…) e di crisi politica (la polveriera mediorientale, il nazionalismo U.S.A., i fragili equilibri europei, la nascita di nuove super potenze: i BRICS), in cui il mito di una pacifica esistenza basata sul consumo è sfiorito.
Prima la gente era insoddisfatta, ma grazie a una maggiore stabilità economica poteva coltivare il suo sogno di un’esistenza allegramente consumista. Adesso la gente è insoddisfatta, disillusa e arrabbiata, profondamente arrabbiata. Io, donna-bianca-26enne-qualunque-siciliana, non ho mai creduto che un’esistenza basata sulla ricerca e l’acquisto di beni secondari desse la felicità, ma riesco a capire la prospettiva di chi ci credeva. Se io, donna-bianca-26enne-qualunque-siciliana, posso comprendere le ragioni di un consumatore-uomo-bianco-50enne-veneto, perché quel consumatore-uomo-bianco-50enne-veneto non dovrebbe capire le ragioni di un uomo-nero-40enne-bel sorriso-africano? Cosa c’è di tanto diverso tra un uomo di colore che viene da un Paese povero per cercare un po’ di felicità e i nostri nonni che agli inizi del XX secolo, spinti dalla miseria, solcavano l’oceano?
Qualcuno potrebbe rispondere che è diversa la nazionalità: noi siamo italiani e loro “marocchini”. Qualcuno potrebbe dire che il pane che questi marocchini vogliono mangiare è il pane italiano. E allora signore e signori miei quello che vi dirò non vi piacerà. Quel che vi dirò è che se c’è una differenza, c’è tra voi e i vostri nonni. Voi siete dei nipoti annoiati, grassi, egoisti e viziati, mentre i vostri nonni erano affamati di vita, pieni di begli ideali, generosi e felicemente poveracci. Cari nipoti forse i “marocchini” assomigliano più di quanto non vi immaginiate ai vostri nonni bianchi.


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