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CRONACHE SCOLASTICHE (1) - Con gli occhi dello straniero

Creato il 14 marzo 2012 da Sulromanzo

CRONACHE SCOLASTICHE (1) - Con gli occhi dello stranieroLeggevo giorni fa che molto probabilmente non è stato Stendhal a dare il titolo Chroniques italiennes (Cronache italiane) alle storie scritte ispirandosi all’Italia, alle sue leggende come ai fatti realmente accaduti. Ma ormai la mia fantasia sul titolo di questa rubrica era partita.

Uno dei rischi del mestiere di insegnante è quello di avere una percezione del tempo eternamente circolare e insieme appiattita. L’anno non è quello solare ma quello scolastico. Scandito da tappe tradizionali che gli sembra di conoscere fin troppo bene. L’inizio d’anno con nuovi studenti o magari una nuova sede. Nuovi libri di testo. I quadrimestri, i consigli, i collegi.

Mentre per ogni studente ogni anno è diverso. Una prima media rimane la sua prima media per tutta la vita. Il suo primo giorno di scuola media sarà sempre e solo quello e non lo confonderà con altri. Ne ricorderà l’emozione e la sorpresa, forse anche l’odore dell’aula e la luce ancora troppo forte di settembre. L’impatto con un gruppo di coetanei sconosciuti, di cui forse solo alcuni diverranno suoi amici. Difficilmente mescolerà gli episodi e, anche se la scuola dovesse poi apparirgli come una spessa coltre di nebbia, si ricorderà forse per sempre le simpatie le paure gli aneddoti. Questo o quell’insegnante, odiato o amato. Ecco perché l’insegnante dovrebbe entrare in classe ogni mattina con gli occhi dello straniero. O, come dice Daniel Pennac, con gli occhi dell’antropologo. Perché uno dei rischi di questo mestiere è quello di sclerotizzarsi in una routine fine a se stessa, anche se si cerca di fare il lavoro nel modo più scrupoloso possibile. E senza accorgertene finisci per non vedere più quello che c’è davanti ai tuoi occhi. Che è poi un universo inesplorato.

Ogni mattina stai in una stanza con un folto gruppo di persone, maschi e femmine. Non puoi avere un rapporto alla pari con loro, bene che vada ci sono almeno quindici o venti anni di differenza, sei come minimo di un’altra generazione. Il loro linguaggio ti appare povero, ripetitivo, difficilmente ti ritorna quello che hai detto il giorno prima. Nonostante le ansie per lo svolgimento del famigerato programma, pensi di avere ogni anno tanto tempo a disposizione. E a volte ti sembra anche che quel tempo non passi mai. Al contrario, se ti rendi conto che ogni giorno accade qualcosa di autentico, e di irripetibile, ti è più facile dare un senso quotidiano. Solo se ti metti in una prospettiva diversa però, come se in quell’aula ci fossi entrato per caso e per la prima volta.

Ho iniziato a insegnare a ventiquattro anni. Gli alunni del triennio superiore avevano pochi anni meno di me. Il loro linguaggio era anche il mio, stesso background anni ’70. Sapevo, rispetto ai miei colleghi più anziani, di avere una marcia in più. Era facile stabilire complicità, anche mantenendo l’autorevolezza del ruolo. Per dieci anni, quelli che ho trascorso ad insegnare al liceo, le distanze non sono state mai incolmabili. Poi il passaggio alla scuola media. Brusco e traumatico. Improvvisamente mi ritrovavo, io adulta da tempo, di fronte a uno stuolo di ragazzini. Una prima media: bambini impauriti appena usciti dalle elementari, abituati a dare del tu alle loro maestre, ad abbracciarle e a chiamarle per nome. Una terza media: ragazzetti imberbi che da un giorno all’altro cambiano voce. Mi bastarono poche mattinate di scuola per rendermi conto che, se loro non capivano me, io non capivo loro. Ogni concetto andava sgranato, semplificato, ma senza banalizzare. Non potevi sottintendere, dare nessun passaggio per scontato. E attenzione all’uso dell’ironia, che a quell’età nel migliore dei casi non viene capita, oppure è addirittura un’arma tagliente. Era un altro mondo.

Ho passato dieci anni nella scuola media. Un grado di scuola, secondo me, ingiustamente trascurato o ignorato. Su scuola elementare e superiore mi vengono in mente tanti libri o film, alcuni bellissimi e poetici. Di scuola media non si parla, forse perché quei tre anni scorrono scomodi e ripensarci da adulti pone qualche problema, perché in quel periodo non eravamo né bambini né ragazzi, ma ibridi arruffati. Eppure è un’età di emozioni grandi e di scoperte. Anni veloci e intensi in cui una lezione, un film possono aprirti un mondo di suggestioni e accendere l’amore per qualcosa. Le passioni e le idiosincrasie di adulto, a volte, possono nascere da lì, quando assorbivi tutto come una spugna.

Ecco perché, ogni giorno che entro in classe, cerco di non fare mai l’abitudine a tutto questo.

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