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Io fuori. Vedo le impronte insanguinate, i pantaloni beige dell'orefice, che si è rialzato un attimo e sembra riprendersi dallo shock (ma non del tutto), sporchi di sangue sul culo e in fondo, alla zampa. Vedo i teli dietro cui c'è il cadavere. Tutto questo stando dietro la linea di plastica bianca e rossa posta dai carabinieri. "Do not cross the line", sarebbe scritto sulle strisce gialle dei film americani. Lì, in una border-line. Da una parte il dramma, il fatto reale: un omicida, una vittima e i carabinieri. Dall'altra noi giornalisti e il pubblico di curiosi. Quelli che passano, guardano, si fermano e chiedono: "Cosa è successo?". La risposta diventa man mano meccanica e sintetica: "Una tentata rapina finita in omicidio". "Chi è morto?", chiedono, come se fosse importante. Io ci sono arrivato tardi, dopo, a bocce ferme, a capire che è una domanda superflua. "Il rapinatore, signora". Ripetuto tante volte, come un mantra per convincersi a star calmi e professionali, che non è niente, e anche per dire: "E' morto il cattivo. Questo film ha un lieto fine".
E qui le reazioni diventano varie. Dal "Se l'è cercata", al "Ha fatto bene il gioielliere". Qualcuno accenna: "Poveretto, non doveva finire così", e in un quartiere popolare non sai mai cosa voglia dire davvero, se stiano dalla parte della sicurezza e della disciplina o dalla parte del morto di fame.
Il pensiero poi resta sempre quello per chi prova a essere un professionista freddo e distaccato: non perdere l'obiettivo, stai attento, cogli i particolari, non farti sfuggire una parola, controlla i concorrenti, fai sempre una domanda in più, tanto per scrupolo, verifica quello che sai, fermati un minuto in più dei concorrenti, fai quella telefonata finale per sapere se ci sono novità. Poi corri in redazione e scrivi, entro i limiti spaziali della pagina e temporali dell'editore, controlla bene per evitare che i colleghi debbano correggere il pezzo. Una sfida continua. Il pensiero è focalizzato su questo sistema. Poi arrivi a casa, da solo. Lì, la linea da non oltrepassare cede.
Inizi a pensare che poco importa che la vittima sia il rapinatore che se l'è cercata o il "rapinato". Un pensiero ti arriva al cervello in quel momento di solitudine. Stanotte una moglie, una madre, dei figli, delle sorelle e dei fratelli non dormiranno e piangeranno. Quella persona che piangono, la vittima, forse non meritava di morire. Nessuno merita di morire, neanche un ladro. A questo si aggiunge l'effetto sorpresa: la vittima aveva qualche piccolo precedente, e forse i suoi familiari, i suoi cari, non se l'aspettavano che lui fosse un rapinatore, qualcuno capace di andare in un negozio, mostrare un'arma giocattolo, minacciare, far paura, terrorizzare un altro uomo, uno che a casa ha moglie, figli, madre e fratelli, per rubare. Ok, mi ricordava una collega più esperta e saggia, "C'hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane. Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame". Ma perché rubare, poi? Perché mancano i soldi? Perché hai fame? Perché hai "bisogni", quei bisogni piccolo-borghesi della società del consumo e dell'immagine che non ti puoi permettere? A tutto questo ci sono altri rimedi.
E il rapinato? Avrà per sempre, sullo stomaco, sul cuore e nella mente, il peso di una vita cancellata e di una famiglia rovinata. Dovrà passare in mezzo a processi. Potrà cavarsela, forse anche un po' di galera. Ne uscirà, ma il rimorso rode sempre. Potrà dirsi: "Al suo posto potevo esserci io" e trarre varie conclusioni. Potrà anche dirsi: "Ma perché non cedere e salvare due vite e due famiglie?". Anche lui e la sua famiglia si faranno carico di un fardello non da poco.
Tornando alle prime persone, loro piangeranno non solo perché un familiare è morto, e morto ammazzato, ma anche perché è stato ucciso mentre compiva un atto inaccettabile, magari incomprensibile e non necessario. E ciò renderà la sua morte e il suo assassinio ancora più difficile da accettare. Un lutto affatto facile da elaborare. Una moglie rimasta sola coi figli e una madre che seppellisce il figlio è quanto di più doloroso ci sia, e questo pensiero riporta noi cronisti, che vogliamo fare i professionisti del nostro mestiere in maniera fredda, distaccata, cinica e spietata, alla dimensione umana. Così dal lato del pubblico spettatore passiamo all'altro, oltre la linea, di simili che capiscono qualcosa e provano compassione. Troppo tardi? La proviamo comunque, e conoscendo quest'aspetto forse la proveremo a ogni occasione. Non ci risponderemo "Sono cose della vita", né le isoleremo alla dimensione sociale, di quartiere e di ceto, perché sono assolutamente trasversali, geograficamente e socialmente, e ci toccano tutti.
PS: Queste riflessioni sono nate grazie a uno scritto di Ferruccio Sansa (qui) e grazie alle canzoni di Fabrizio De André. Cose che uno capisce, ma coglie dopo.
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