27 agosto 2013 di Francesco Danieli
di Francesco Danieli
Tipico sedile scolatorio per l’essiccazione dei cadaveri
“Cu sculi!” è una delle più tipiche imprecazioni salentine, oggi meno usata che in passato. Rivolta in questa forma esclusivamente in 2ª persona singolare, si ritrova nella 2ª e 3ª persona, al singolare come al plurale, solo nella forma perifrastica col verbo essere al condizionale e in funzione servile: ieri sculare (2 ª p.s.), era sculare (3 ª p.s.), eranu sculare (2 ª p.s.), ieru sculare (3 ª p.s.). È un’espressione sintetica che sintatticamente corrisponde suppergiù al congiuntivo desiderativo/ottativo latino (utinam + congiuntivo) e andrebbe tradotta con “voglia/volesse il cielo che tu abbia a scolare; devi/dovresti scolare”.
Ma qual è il reale significato di questo malaugurio? Per comprenderlo appieno, bisogna fare un viaggio nel tempo, prima dell’età napoleonica e dell’applicazione in Italia dell’editto di Saint Cloud (1806), con cui si proibivano le sepolture intra moenia, specie quelle sotto ai pavimenti delle chiese, e si imponeva l’erezione di cimiteri extra moenia.
Fino a quel momento e comunque, in linea di massima, entro la fine dell’Ottocento, i defunti venivano seppelliti nei cimiteri sotterranei di cui disponevano almeno tutte le chiese parrocchiali e quelle conventuali, come pure molte chiese confraternali. Soprattutto in queste ultime due tipologie, ovvero nelle sepolture sottoposte alle chiese dei conventi/monasteri e in quelle sottostanti le chiese delle congreghe laicali, fu in uso lungo tutta l’età moderna la pratica di far “scolare” i cadaveri, prima di dare loro la definitiva collocazione orizzontale. Questa pratica era impiegata per ottenere la semimummificazione, impedendo la totale decomposizione della carne e nel tentativo di salvaguardare il più possibile la sacralità del corpo del trapassato. I cadaveri venivano calati nelle camere sotterranee attraverso apposite botole e venivano posti a sedere su seggioloni in tufo, fabbricati in nicchie dislocate lungo le pareti perimetrali degli ipogei. I sedili (in dialetto canapè) erano incavati al centro della seduta, così da originare una sorta di bacinella a sperdere (in dialetto cantareddha) in cui scolavano i liquidi mefitici che, defluendo attraverso gli orifizi, purificavano la salma dagli umori interni e permettevano l’inizio del processo di essiccazione e conservazione. Dopo un certo tempo i resti mortali venivano spostati nell’ossario, qualora fossero rimaste solo le ossa; venivano interrati o distesi nei loculi, nel caso in cui le parti molli non risultassero del tutto indurite o decomposte; venivano esposti in piedi, sempre negli ipogei o in altri ambienti a livello stradale, qualora risultassero perfettamente mummificati, magari dopo essere stati rivestiti di nuovi indumenti da parte dei familiari.
Corpi mummificati nella cripta della Cattedrale di Oria
Ciò che risulta alquanto macabro in questa usanza, tipica non solo del Sud Italia ma anche del Settentrione e di vari altri Paesi esteri, è che gli ambienti sotterranei di sepoltura costituivano stabilmente luoghi di meditazione. Frati e suore, infatti, solevano impiegare queste cripte come ritrovo per la preghiera personale e comunitaria, così da contemplare materialmente, al lume di candela, la vanità della vita umana e la caducità dell’esistere. Lo stesso sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), nella sua disgustosa opera Apparecchio alla morte (1758), insiste più volte sulla contemplazione della decomposizione umana, eccedendo in pessimo gusto al punto II, nel presentare il «Ritratto d’un uomo da poco tempo passato all’altra vita». Così si esprime il moralista campano, autore tra l’altro del celebre Tu scendi dalle stelle: «[…] Mira come quel cadavere prima diventa giallo e poi nero. Dopo si fa vedere su tutto il corpo una lanugine bianca e schifosa. Indi scaturisce un marciume viscoso e puzzolente, che cola per terra. In quella marcia si genera poi una gran turba di vermi, che si nutriscono delle stesse carni. S’aggiungono i topi a far pasto su quel corpo, altri girando da fuori, altri entrando nella bocca e nelle viscere. Cadono a pezzi le guance, le labbra e i capelli; le coste son le prime a spolparsi, poi le braccia e le gambe. I vermi dopo aversi consumato tutte le carni, si consumano da loro stessi; e finalmente di quel corpo non resta che un fetente scheletro, che col tempo si divide, separandosi l’ossa, e cadendo il capo dal busto […]». Mi fa strano oggi, dopo vent’anni, ricordare che un padre spirituale della mia fanciullezza mi diede da leggere una simile porcheria!
Sta di fatto che il periodo del lutto, ben cadenzato in terra salentina a seconda del grado di parentela col defunto, corrispondeva orientativamente alle fasi di essiccazione parziale e totale del cadavere (dai sei mesi in su). Era questo un tempo intermedio, durante il quale i superstiti elaboravano la perdita subita e il defunto veniva definitivamente traghettato nell’oltretomba, perdendo la sua intrinseca pericolosità.
Molte tra le chiese salentine custodiscono camere e corridoi cimiteriali al di sotto della pavimentazione della navata centrale e del presbiterio, o sotto le cappelle gentilizie laterali. Ed i sedili scolatori si trovano in gran parte di tali ipogei, specie in quelli che furono o sono conventuali, in modo particolare di frati cappuccini. Nella sagrestia della chiesa del Purgatorio a Monopoli e nella cripta della Cattedrale di Oria le mummie sono in bella mostra, se così si può dire. Nella maggior parte dei casi invece, o giacciono al buio sotto al piede inconsapevole che calpesta il lastricato sovrastante, o sono state trasferite nei cimiteri comunali da qualche anno. È il caso dell’interessante ipogeo del santuario della Madonna della Lizza ad Alezio, visitabile da circa un ventennio, maldestramente ripulito ai tempi dell’episcopato di mons. Vittorio Fusco, presule a Nardò tra il 1995 e il 1999, in occasione del Giubileo del 2000. Io stesso lo visitai nel 1998, quand’era ancora colmo di salme mummificate, e credo che lo si sarebbe dovuto mantenere inalterato, per rispetto a quei morti e come testimonianza storico-antropologica.
Tutto questo volo pindarico, insomma, per spiegare come l’espressione “Cu sculi!” sia semplicemente un colorito sinonimo di “che tu possa crepare!”.