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Culetto a cuore

Da Iannozzigiuseppe @iannozzi

di Iannozzi Giuseppe

Culetto a cuore

Il ciccione

Ero sul treno – già, pure a me tocca di prenderlo di tanto in tanto – e mi si avvicina uno: “Tu sei…” Poi, sputa: “E’ libero qui?”
Gli faccio cenno di sì col capo.
Ero così tanto grasso che ha preso due posti con quel suo grosso culo flaccido.

Teste di cazzo

Un mio amico è un po’ tocco di testa. Ama i pelati, meglio se col cranio rasato a zero.
Ama leccargli la testa con la lingua. Dice che per lui non c’è niente di più erotico.
Il mio amico è un bravo ragazzo ma pazzo: se ti mette la lingua sulla pelata, non te lo scolli più finché non ti ha fatto lo shampoo con la saliva.
Ogni volta che lecca una testa calva, lui ha una erezione: eiacula nelle mutande e mentre viene appiccica le sue labbra al cranio dello sventurato come fossero una ventosa.
Un giorno gli ho chiesto perché gli piace e lui mi ha risposto che la gente non si rende conto di quante teste di cazzo ci sono in giro a piede libero. Gli ho consigliato di fare dei più normali e intimi pompini, mi ha mandato a quel paese: “Una pompa te la fa chiunque. Che ci vuole a ficcarsi una cappella in bocca?”
Ho fatto spallucce: mai provato a prenderlo in bocca. “Non lo so.”
“Io ho provato. Ti vengono in bocca e morta lì. Vuoi mettere con una bella leccata! La lingua che scivola sulla pelata. Un giorno riuscirò ad avere un orgasmo totale, devo solo riuscire a ingoiare la testa del tipo.”
Il mio amico oggi è in carcere: ama con una ferocia uguale a un pitbull. Però ce l’aveva quasi fatta a ingoiare mezza testa del suo ultimo amante a piede libero.

Culetto a cuore

Il sole era alto. Io avevo un gran sonno: per tutta la notte non ero riuscito a chiudere occhio. Pensieri, come serpenti nella testa. La luce mi dava fastidio agli occhi, tanto che fui costretto a mascherarli con un paio di occhiali da sole molto scuri.
La incontrai. Io non la riconobbi. Era passato tanto di quel tempo. Dio! Non sapevo neanche quanto. Fu lei a riconoscermi. Teneva due bambini, uno per mano, entrambi taciturni, con il broncio, quasi fossero in collera con la madre.
“Tu sei Marco. Non sei cambiato.”
“Non mi ricordo di te…”, ammisi senza vergogna.
“Cristina.”
“Non mi dice nulla questo nome. Mi spiace. Forse ha sbagliato persona.”
“Non sei Marco A.?”
“Sì, sono io.” Mi sforzai di pensare. Ma niente. “Non mi ricordo di te.”
“Sono quella che ti prendeva per i fondelli.”
Una fitta lancinante alla tempia destra: “Scusa, ma di te non mi ricordo. Poi questa notte non ho dormito e ho una emicrania della madonna. Perdonami.”
La lasciai così, di sasso: una donna con due bambini e un mondo di solitudine dentro.
Non era più la Cristina che avevo odiato, era sol più una cicciona, i fianchi sformati, e trenta chili di troppo come minimo. Non ce l’aveva più il culetto a cuore, quel fondoschiena per cui un tempo tutti i maschi le morivano dietro. Era una donna con due figli, e divorziata: ce l’aveva scritto in fronte.
Tornato a casa buttai giù un’aspirina. Mi appoggiai sul letto e dormii come un bambino.
Alla sera era fresco e riposato. Tirai su la cornetta del telefono, aprii la rubrica, cercai il numero d’una sciacquetta mozzafiato che avevo conosciuto una settimana prima a teatro.

Lo stronzo di Battisti

Battisti si alzò dalla tazza del cesso tutto soddisfatto. Aveva tirato giù il più grande stronzo da Adamo ed Eva. Era un gran bel pezzo di merda, biblico, babelico, degno d’essere immortalato. Prese la Polaroid e gli scattò diverse fotografie.
Era fiero d’essere stato proprio lui a partorirlo.
Gli dispiaceva di dover tirare lo sciacquone. Mandare via tutto quel ben di Dio.
Non servì: lo stronzo non se ne andò a fondo nelle fogne.
Non sarebbero bastate tutte le Niagara Falls per affogarlo, ed allora Battisti lo lasciò lì dov’era.
Passarono un paio di giorni.
Lo stronzo resisteva: non si ammorbidiva.
Battisti doveva farla ma con quello stronzo di mezzo non era facile.
Trascorse un altro giorno. E un altro.
Dopo una settimana, Battisti scoppiò.
L’ambulanza lo portò via a culo all’aria: se l’era fatta sotto. Una cagata micidiale che l’aveva disidratato al punto da metterlo kappaò.
Le polaroid regalate a un po’ tutti gli amici oggi gli ricordano che è quel che è e lui può solo tapparsi la bocca.

Due ragazzi innocenti

Erano l’uno di fronte all’altro.
Due ragazzi.
Uno era un anarchico, di quella tendenza lì più o meno. Volto mascherato.
L’altro un carabiniere armato. Volto spaventato e nudo, ben rasato ma sudato marcio.
L’estintore: quello con il passamontagna glielo voleva tirare in testa.
Fa la mossa.
Il colpo di pistola parte.
L’estintore cade per terra.
Il ragazzo cade per terra. La testa nel sangue.
La folla grida che l’hanno ammazzato.
I manifestanti insorgono.
Le forze dell’Ordine vedono rosso e vanno giù pesante: manganellate su tutti, come dio comanda.
La paura ha il sapore dolciastro del sangue.
Schegge di sole tagliano i volti piangenti.
Il carabiniere non ha capito d’aver ammazzato. Sa solo che c’è uno a terra con il volto coperto dal passamontagna nero ora rosso di sangue.
Vogliono la sua testa: per tutti è l’assassino. Lui sa solo d’aver sparato. Nient’altro. Ma è scritto: se riuscirà a portare la pellaccia a casa, lo ricorderanno male.
E’ un fulmine che gli trapana le tempie: “Assassino.” Nessuno crederà mai che lui ha solo sparato di fronte a l’estintore che si è visto davanti.
Ha sparato. Punto. Non voleva morire, con la testa spaccata.
Non voleva ammazzare.
Le urla dei manifestanti si ripetono all’infinito: “Assassino.”
Non c’è scampo.
C’è solo una cosa da fare: pregare di riportare la pellaccia a casa.
Ma niente sarà più come prima… di quel maledetto 20 luglio 2001.


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