Aaron Copland ai tempi di Appalachian Spring
La Graham fornì a Copland solo un sommario molto vago della "trama" del lavoro, nell'intento di lasciare al compositore la massima libertà espressiva possibile. Durante tutta la fase della composizione, Copland chiamò il lavoro semplicemente ballet for Martha e fu soltanto una settimana prima del debutto (avvenuto a Washington il 30 ottobre) che la Graham decise il titolo definitivo: Appalachian Spring.L'organico originario prevedeva un ensemble cameristico formato da tredici strumentisti (gli archi in formazione canonica più clarinetto, fagotto, flauto e un pianoforte); l'anno successivo Copland ricavò dalla musica per il balletto una suite orchestrale che divenne ben presto uno dei suoi lavori più popolari e più largamente eseguiti.
Forse a nessun altro musicista come ad Aaron Copland toccò in sorte di saper cogliere e rendere in maniera tanto nitida qualcosa dell'essenza stessa dello spirito americano.
La sua musica possiede delle qualità di fiducia nel domani, di saldezza interiore, di una gentilezza tranquilla che non deriva dall'adesione a una convenzione imposta dall'esterno ma è espressione di tutto un modo di concepire l'esistenza. Sono caratteristiche che hanno reso la produzione di Copland in grado di influenzare in maniera duratura il pensiero ed il linguaggio espressivo del suo Paese: potete non aver sentito una nota di Copland, ma se avete mai visto in un film americano una scena di paesaggio è facile che la musica di sottofondo vi torni alla mente ascoltando Appalachian Spring. Da un certo punto di vista non è esagerato affermare che Copland con la sua musica ha scritto la colonna sonora del paesaggio americano.
Poco meno di una sessantina d'anni dopo (nel 2002 per l'esattezza), a Gregory L. Pease fu offerto di acquistare una partita di tabacco Kentucky invecchiato oltre vent'anni. Quel tabacco costituisce l'ossatura di un capolavoro che - esattamente come Appalachian Spring - cattura qualcosa dello spirito americano, una miscela che non sarebbe potuta nascere che da quel lato dell'Oceano: Cumberland. Stabilire paralleli fra un tabacco e un brano musicale potrebbe sembrare un esercizio nei territori della più assoluta gratuità: eppure io sono convinto che chi assaggerà questo tabacco non potrà non coglierne i tratti idiomatici che lo caratterizzano.A partire dalla composizione (manco a dirlo all American: oltre il summenzionato Kentucky, ci sono dei sontuosi Virginia rossi e un Perique impiegato come esaltatore della nota dry in maniera assolutamente geniale), al gusto al tempo stesso deciso, corposo ma anche gentile, alla grande facilità di combustione, tutto contribuisce a rendere questo tabacco un autentico classico americano.
E' una miscela che ha la debordante ricchezza del paesaggio del Vermont temperata dall'austerità dei Padri Pellegrini; una miscela che parla di grandi spazi, che con la nota leggermente affumicata dei suoi aromi suggerisce profumi di legna che brucia al centro di un accampamento.
Ha un corpo e una spinta nicotinica decisi: ma è una forza gentile, che si lascia percepire ma non viene gratuitamente esibita.
Non posso dire che sia il tabacco più buono che abbia mai fumato (ammesso che si possano fare attribuzioni di questo tipo con un minimo di sensatezza), ma di certo raramente ho fumato miscele con tale potenza e precisione evocativa.
E' un tabacco da fumare leggendo Thoreau, Emerson o Mark Twain, o ascoltando (ovviamente) Copland o Ives; o anche senza fare null'altro che fumare, lasciando che le sue suggestioni modellino il nostro spazio interiore.