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Cuore comune. Renata Morresi

Creato il 14 ottobre 2010 da Fabry2010

Cuore comune. Renata Morresi

di Nadia Agustoni

“Cuore comune” peQuod 2010, è il titolo della prima raccolta poetica di Renata Morresi, libro in sei sezioni, che sono una summa del suo lavoro con le parole. Diverso e ampio il respiro di questi testi a segnare una ricerca che mai abbandona una propria coerenza e ha in sé potenzialità tutte da esplorare. Nella nota di copertina Massimo Gezzi sottolinea: “un dettato teso, percussivo, trapunto di versi anche brevi interessati da un disinvolto plurilinguismo, dove spesso uno scarto minimo del significante spalanca voragini di significato”.(1)
Il segno di molta poesia è la pazienza con cui si lavora con le parole, il duro rendere conto del poeta di una realtà che sembra scavalcarlo lasciandolo in una sospensione dove difficile è trovare al loro posto tempo e spazio: “ infine fuori/ comincia chiunque/ tutto era spazio dopo e quando […]”; e subito, entrando nel vivo, toccando il segreto delle immagini “sola tra-/ sparire, vibrare/ di più- / ma appesa alla finestra/ (credo che sappiate come resta appesa al vetro)/.” A tratti siamo tentati leggendo Morresi di accostarla ad alcune voci della sua terra, le Marche, ma più forse per quello scherzo dell’udito che accosta i suoni e li avvicina: “vi vedo, due forme di letto e di pane/ due forme del sacro allontanare”, dove ci ricorda la poesia di D’Elia con i suoi scatti improvvisi, il darci “cena d’amore […]”(2) e il toccare le cose per riportarci la nostalgia di quello che abbiamo perduto.

Philippe Jaccottet in un breve testo dedicato alla pittura di Giorgio Morandi scriveva che il pittore era consapevole delle minacce al mondo che lo circondava: “Egli sapeva ciò che stava accadendo vicino a lui e che minacciava lui pure, insieme ai suoi cari. Semplicemente Morandi ha probabilmente pensato, o meglio sentito, che la sola risposta degna che egli potesse dare a tutto questo era di accrescere ulteriormente, per quanto possibile, la propria concentrazione sul lavoro. Tenendosi lontano più che mai da ogni eloquenza, da ogni smorfia; […] Continuando a meditare, senza traccia di ostentazione, di fronte al piccolo gruppo di oggetti che trasceglie, avvicina, allontana, sposta instancabilmente, quasi impercettibilmente, ma con assoluta calma, come il giocatore di scacchi sorpreso dall’obiettivo di Herbert List.” (3) E così, nella poesia di Morresi, i testi richiamano un vissuto dagli “Album” di famiglia e dagli sprechi che la vita, contando le persone come errori, porta con sé. Il “cuore comune” del libro è anche questo andare a ritroso, tra le radici parentali e la memoria dei dispersi toccando i paesaggi, belli e corrosi, visti da un treno in corsa o quelli delle vie cittadine dove il tempo è uno ieri che scorgiamo con un sentimento di ri-conoscenza. L’autrice va oltre questo ri-conoscimento e arriva a dire nella poesia per Zefferina A., prozia: “[…]voi dopo il primo ballo,/ o fija mia,/ e curre e venne e daije/ voi miglior me/.”
Sembra celarsi nei versi una nostalgia di case perfette e di un vivere comune che dia senso ai gesti e alle parole di ogni giorno. In “Il mare alto” i micro dialoghi col figlio assumono la forma di un metodo, una resistenza alla propria solitudine che è tanto più sentita perché non è accompagnata da estraneità, ma da un senso di appartenere, se pure un po’ a lato, al proprio mondo: “ ‘in che giorno siamo oggi mamma?’ – ‘Siamo/ giovedì’ gli rispondo ‘Stiamo in/ giovedì.’ mi dice. Non solo qui/.” In “La terra distesa” la voce prende respiro, in tono quasi parlato abbiamo un diario degli eventi minimi, ma dove non manca mai l’osservazione su quanto ci circonda. La vita irrompe con una affermazione: “La vita si occupa di ciò che fa/ la vita, e glielo chiede, ci penso/ da un po’ a questa cosa onesta/ e illimitata, come un pomeriggio/ che viviamo normalmente,/ nella sua attesa grata, nella sua ansia/ veggente.” Quest’ansia rivela, rilkianamente, una “passione per la totalità” (4), una interezza nascosta, ma celata a noi stessi che scriviamo in tempi disgregati, dove nel tempo abbiamo il passato e il futuro, come punto di riferimento e di arrivo, e manca il presente, perduta la certezza di una appartenenza che ormai non trova, se non nel privato, quel cuore a cui il titolo della raccolta richiama.
La sezione che chiude il libro e gli dà il titolo torna al tema della casa, non tanto per un bisogno di singolarità staccata dal mondo, ma per ritrovare un significato, trovare un filo che porti alla vita che da sé fluisce: “ […] come se fosse nato ora/ dall’interno, un fiume.” Il dentro e il fuori affidati a due elementi primari, l’aria e la luce, che conducono a una interiorità che fa spazio e crea meno inferno “nell’inferno minore” (5) dell’epoca.

Grace Paley, in “Poesia sull’arte del narrare” inizia con questi versi: “L’artista arriva dopo/ racconta la storia delle storie […]” (6) e Paley ci mette di fronte al quotidiano di ogni racconto, a chi parla e a chi ascolta, al rincorrersi di voci e figure con una storia che è sempre plurale perché è anche e soprattutto la storia degli altri. La poliglotta Paley, usa la parola con un’estrema attenzione alla realtà, dà voce a chi non è accolto né ascoltato nella sua semplicità d’essere. Renata Morresi sfiora più volte un dettato paleyano, ma si ferma prima, alle proprie circostanze e a chi ha vicino. Tuttavia intuiamo nella sua poetica le tracce di un oltre che l’aspetta e a cui potrebbe dare parola. Sempre con Paley: “ Una formica!/ trascina dieci grammi/ di carcassa lungo/ i gradini di cemento […]/ porta un festino/ per la famiglia” (7) ma, aggiunge la poeta americana, non c’è questa “nazione raminga/ da nessuna parte.” (8) E noi sappiamo che è vero per molti e in molti aspettiamo che la festa e la nazione raminga si riuniscano.

Note

1 – Renata Morresi, Cuore comune, nota di copertina di Massimo Gezzi; Edizioni peQuod 2010

2 – Gianni Delia, Trovatori, pag. 8, Einaudi 2007

3 – Philippe Jaccottet, La ciotola del pellegrino (Morandi), pag. 26; Edizioni Casagrande 2007

4 – Rainer Maria Rilke, Il Testamento, pag. 61; Tea Edizioni 2002

5 – Claudia Ruggeri, Inferno minore; Edizioni peQuod 2007

6 – Grace Paley, In autobus, pag. 15; Edizioni Empiria 1993

7 – ibidem, pag. 43

8 – ibidem, pag. 43

*

Da “Cuore comune”

Tre odori

uno è la tinta
che tingeva la madre sulle teste
come l’arte di coprire il tempo
di un colore astratto, idealista,
resta traccia nel tanfo
che consuma le dita

uno è l’officina
con la polvere metallica del tornio
che fa un cerchio intorno ai piedi
un’aureola, anche qui
l’odore grasso e ferroso
ha una sua vista
macchie sulle mani, sulla faccia

uno è l’odore della sveglia
in terza media, odore
di visione d’altopiano,
un nero remoto e caldo amaro,
parlava di partenze,
e diceva sempre
“a dopo” al dopo.

*

Non da poco un giro al cimitero
di sabato mattina e a digiuno, un’offerta
di gerbera steccata da tenere dritta
accanto al nome in rilievo precisi
un bastone da vecchio una faccia
senz’occhi un lenzuolino ricamato
– l’ago infila la stoffa, la fortuna
del neonato, dura un giorno circa
ed è l’unica roccia che per tutti fa casa
migliore testimone della pietra ripulita
più vera della foto mai passata.

*

Ah non possiamo farci salmi
ah non possiamo essere ostie ed ingoiarci
allora basti un bicchiere d’acqua fresca
alla statura intera per tenerla
abbastanza dritta, abbastanza flessa
ché non poter mangiare la persona
o tenerle in braccio il cuore gatto
o ficcarle mano nella mano
come un chiodo, fino a dopo sé – è giusto

muoversi a ritmo, scivolare una chançon
e non sapere mai di più
del campo benedetto di distanze
tra cui ti toccai piano, con grazia, di fianco.

*



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