Ed ora, ormai lontano dal viaggio e alla fine del libro, solo per un istante il mio pensiero torna indietro e chiudo gli occhi. (...) Il Mediterraneo è del color del vino e rosa è l’alba alle spalle di Itaca. Il sangue della Grecia trasuda delle mie arterie mentre scrivo qui, in Spagna. C'è stata un’età in cui l’uomo sembrava poter catturare il senso della vita, far propria la sua stessa esistenza di concerto con la Natura e con il Tempo, in pace con gli dei, fin dove ciò era possibile. E' stato un momento fugace nella storia umana e forse irrepetibile. E quest’istante luminoso si è prodotto grazie ad una civiltà che, tolti i giorni di Alessandro Magno, mai volle costituirsi come un unico Stato, anzi la sua coscienza di nazione respirò in uno spirito di unità culturale.
Il miracolo greco si ebbe perché quegli uomini si sentirono affratellati dalla religione, dai giochi sportivi, dalla poesia, dall’arte e dal pensiero, e non da vincoli di sangue. Vincolati invece dal cuore e dalla ragione, e la loro vera patria non fu altro che l’anima e la ragione. E, nell’andarsene, ci lasciarono orfani.
Per essi, nei momenti più alti della loro civiltà, l’essere e l’esistere furono la stessa cosa. Vinta la paura, seppero affrontare coraggiosamente un universo spaventoso, dove gli dei, soggetti al capriccio delle loro passioni, governavano con crudeltà. E questi uomini audaci costruirono dal nulla un nuovo mondo controllato dalla morale, dall’estetica, dalla libertà e dalla legge. Lo dice così bene Balthazar, l’alter ego del greco Kavafis, nel romanzo di Lawrence Durrel: "Tutti cerchiamo motivi razionali per credere nell’assurdo."
L’uomo greco cercò d’integrare le conoscenze, cercò d’essere un uomo totale, provò ad ordinare il caos, riunificandolo nella luce del pensiero. Battezzò le stelle e le costellazioni con gli stessi nomi che usiamo ancora, nomi che sono rimasti anche per i sentimenti, per le passioni e per la maggior parte dei rami del sapere. Inoltre inventò la letteratura e le riflessioni sull’essenza. E si interrogò, prima di tutti gli altri, su cosa sia il nostro essere: curioso è pensare come - nemmeno dopo tanti secoli - non si abbia ancora una buona risposta!
Immaginativi, sognatori, audaci, curiosi e pieni di coraggio, i greci affrontavano la vita con speranza e vigore. Pur sapendosi mortali e senza credere in una vita oltre la vita, all’orizzonte del non-essere, lì nella profondità dell’Ade, furono ugualmente capaci di allegria. Perciò, mentre nel corso della Storia altri popoli hanno conquistato grandi territori del mondo, loro hanno conquistato qualcosa di meglio: le nostre menti e i nostri cuori. Ci hanno insegnato a ridere, a riflettere e a piangere.
La loro grande impresa eroica è stata quella di scolpire l’anima dell’uomo libero, e dunque tutti siamo greci. Il loro compito principale è stato quello di esigere, e farci esigere, di cercare, nel corso della nostra vita, di avere tutto: l’amore, la dignità, l’onore, il sapere, l’allegria e la prudenza.
Così ci hanno insegnato persino a vivere la vita. Niente di meno...
"Lasciami ricordare il silenzio delle tue profondità!" chiedeva il poeta Hölderlin, pieno di nostalgia per la Grecia eterna.
Fu qui, nel Mediterraneo, nel mare della passione, che accadde il grande miracolo. E, per bocca di un sacerdote egizio, è proprio Platone a spiegarci, forse, la ragione ultima del perché quei fatti straordinari sono accaduti:
"Voi greci", dice il sacerdote egizio, rivolto al legislatore Solone, "siete sempre bambini. Un greco non è mai vecchio!"
- Javier Reverte - da "Corazón de Ulises" pag. 522 -